Leggevo all'aperto la raccolta poetica dell'amico Filippo Davoli con il sole che aveva voltato l'angolo del palazzo, lasciando
finalmente il mio terrazzo un po' in ombra. Fuori
stagione rispetto all'estate ho letto questa poesia:
La
neve batte il mondo, lo percuote
spegnendolo.
La neve che cadendo
[...]
Non sapendo se posso spingermi oltre nel citare senza ledere i diritti d'autore mi fermo qui nel riportare i versi.
Rimango poi in superficie e non faccio troppo l'esegeta. Non ne sono in grado e
non mi compete. Segnalo solo un lampo che, casualmente, mi aveva
colpito. Ho pensato, leggendo la poesia, ad un'immagine bellissima nella
penultima strofa de “Il testamento di Tito” del De Andrè che
certo nessuno dovrebbe insegnare all'amico Filippo.
Davoli scriveva della neve che percuote il mondo spegnendolo e pensavo, di contro, al
caldo terribile sul Golgota che De Andrè richiama con un sole che è
violento e lascia nella quiete solo quando si piega dietro
l'orizzonte per andare a bruciare e scottare altre terre. La sera ed
il buio, il fresco di un vento leggero che uno potrebbe immaginare
toglie il dolore. Dopo le percosse e la sofferenza lo spegnimento di
una vita... e... alla fine, nell'ultima strofa, qualcosa che “scalda
il cuore, lo sorprende.
[...]
Ma
adesso che viene la sera ed il buio
mi
toglie il dolore dagli occhi
e
scivola il sole al di là delle dune
a
violentare altre notti
[io
nel vedere quest'uomo che muore,
madre,
io provo dolore.
Nella
pietà che non cede al rancore,
madre,
ho imparato l'amore.]
Fabrizio
De Andrè, Il testamento di Tito da “La buona novella”
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