Un
po' di anni fa, non ricordo se avevo già finito il Liceo, ritagliai
dalle pagine di Repubblica delle fotografie naturalistiche per nulla
banali. Ne ricordo una in particolare: quella della coda di un grosso
rettile sopra una pozza d'acqua. Nell'articolo si parlava di un
fotografo brasiliano, Joao Salgado, che si era dedicato ad un
progetto fotografico dal titolo “Genesi”. Le immagini tratte da
questo lavoro, dal titolo chiaramente fondativo di un'opera che anela
ad un pubblico universale e di ogni tempo, erano foto in bianco e
nero, di grande forza. Sembravano arrivare da un tempo più antico
della storia. Evocavano scene che anticipavano la comparsa dell'uomo
e che lo rimetteva entro i suoi limiti di ospite ultimo e giovane di
una terra ben più antica.
Rimasi
molto colpito dalla carica di suggestioni di quel lavoro. Tenetti ben
a mente il nome di Salgado scoprendo poi gli altri suoi lavori
fotografici. Recentemente l'ho riavvicinato per altra via. Non più
attraverso le sue mute ed eloquenti foto ma grazie ad un
film-documentario che Wim Wenders gli ha dedicato volendo illustrare
la sua opera e la sua vicenda umana e artistica insieme. Un film
lento. Lento come ogni cosa che vuol insegnare il tempo per
l'ascolto, il silenzio, lo sguardo nelle cose. Ed un film a tratti
faticoso e duro da digerire per la partecipazione alle immagini di
maggior crudezza che Salgado ha raccolto nei suoi lavori di indagine
della realtà degli ultimi del mondo. Nei progetti fotografici in cui
si è trovato a narrare di migrazioni, fame, sofferenza e violenza.
Sì perché le fotografie senza parole raccontano e lasciano nel
tempo fermo dello scatto lo spazio per popolare quell'istante
infinito di riflessione, ascolto, domande.
Wenders
ha certo familiarità con il racconto per immagini. E come regista,
mi concedo un'osservazione senza pretendere perizia e conoscenza, ama
avvicinare la fotografia con lunghe scene ad inquadratura fissa e
quasi senza azione apparente.
“Il
cielo sopra Berlino” è un film che mi ha colpito con la stessa
intensità con la quale mi colpirono le foto di Salgado. Carico di
suggestioni e anche solo per il fatto di rimanere idealmente non
concluso, senza tener conto delle decine di voci diverse che per
frammenti lo popolano lasciando istantanee sulle loro vite, ha una
grande apertura che la sensibilità dello spettatore può “abitare”.
Mi
piacerebbe scriverne. Non ne voglio fare un commento. Non lo voglio
recensire. Non lo voglio analizzare. Vorrò parlarne per quello che è
riuscito ad ispirarmi. Ne scriverò senza rivederlo perché più che
la fedeltà e la correttezza ritengo importante ciò che conservo.
Ciò che io ho accolto e rielaborato magari traviando o fraintendendo
o mescolando ad altre cose che nel frattempo gli si sono andate a
sovrapporre. L'unica cosa concreta e ferma sulla quale mi voglio
poggiare sono le parole del film, che un tempo mi ero appuntato, ed
il testo della poesia “Elogio dell'infanzia” (Lied vom Kindsein)
di Peter Handke, che collaborò al film con Wenders, recitata
all'apertura e successivamente. Le parole che mi ero appuntato sono
invece quelle recitate da un anziano personaggio, un narratore. Il
personaggio del vecchio narratore mi è particolarmente caro.
In
apparenza sono parole distanti: parole dell'infanzia e parole della
fatica del tempo.
Così
si apre il film:
«Quando
il bambino era bambino,
se ne andava a braccia appese.
Voleva che il ruscello fosse un fiume,
il fiume un torrente,
e questa pozza il mare.
se ne andava a braccia appese.
Voleva che il ruscello fosse un fiume,
il fiume un torrente,
e questa pozza il mare.
Quando
il bambino era bambino,
non sapeva d’essere un bambino.
Per lui tutto aveva un’anima,
e tutte le anime erano tutt’uno.
non sapeva d’essere un bambino.
Per lui tutto aveva un’anima,
e tutte le anime erano tutt’uno.
Quando
il bambino era bambino,
su niente aveva un’opinione.
Non aveva abitudini.
Sedeva spesso a gambe incrociate,
e di colpo sgusciava via.
Aveva un vortice tra i capelli,
e non faceva facce da fotografo.
su niente aveva un’opinione.
Non aveva abitudini.
Sedeva spesso a gambe incrociate,
e di colpo sgusciava via.
Aveva un vortice tra i capelli,
e non faceva facce da fotografo.
[interruzione]
Quando
il bambino era bambino,
era l’epoca di queste domande:
Perché io sono io, e perché non sei tu?
Perché sono qui, e perché non sono lì?
Quando è cominciato il tempo, e dove finisce lo spazio?
La vita sotto il sole, è forse solo un sogno?
Non è solo l’apparenza di un mondo davanti al mondo,
quello che vedo, sento e odoro?
C’è veramente il male?
E gente veramente cattiva?
Come può essere che io, che sono io,
non c’ero prima di diventare?
E che una volta io, che sono io,
non sarò più quello che sono?
era l’epoca di queste domande:
Perché io sono io, e perché non sei tu?
Perché sono qui, e perché non sono lì?
Quando è cominciato il tempo, e dove finisce lo spazio?
La vita sotto il sole, è forse solo un sogno?
Non è solo l’apparenza di un mondo davanti al mondo,
quello che vedo, sento e odoro?
C’è veramente il male?
E gente veramente cattiva?
Come può essere che io, che sono io,
non c’ero prima di diventare?
E che una volta io, che sono io,
non sarò più quello che sono?
Le
parole della poesia evocano l'età che sembra essere perduta, ormai
lontana. “Quando il bambino era bambino” e ormai non più.
Mettono insieme con semplicità la leggerezza dell'infanzia, la
libertà e al tempo stesso la fantasia e lo sguardo vitale sulle
cose, ancora incantato. E nell'ingenuità incrociano grandi temi che
forse crescendo si tengono lontani perché stanchi del fatto di non
trovare mai la risposta ultima.
Sembra
quasi essere speculare al brano della prima lettera ai Corinzi di San
Paolo (1Cor 13,11-12)
“Quando
ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da
bambino; ma quando sono diventato uomo, ho smesso le cose da bambino.
Poiché ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora
vedremo faccia a faccia; ora conosco in parte; ma allora conoscerò
pienamente, come anche sono stato perfettamente conosciuto.”
“Quando
sono diventato uomo, ho smesso le cose da bambino” dice San Paolo.
Sembra dire, nel contesto dell'intero brano, che come la condizione
dell'infanzia viene superata così quella dell'imperfezione della
nostra conoscenza sarà superata quando vedremo Dio. Ma non è forse
un ritorno a quell'infanzia, e non il suo abbandono, che nel Vangelo
ci viene indicato come via per il Regno dei Cieli? (Mt 18,3)
Nei
versi che aprono il film appare forte l'infanzia delle domande, della
capacità di incuriosirsi, di partecipare, del dubbio che non è
angoscioso. Versi che suonerebbero strani agli angeli del film,
guardiani e custodi degli uomini, perfetti ma distaccati, incapaci di
sentire e provare le esperienze umane.
Alle
parole dell'Elogio dell'infanzia seguono più avanti nel film quelle
che si possono ascoltare nella testa e nel pensiero di un vecchio
personaggio. Un anziano, Omero, che si riconosce come narratore. Non
del film ma narratore in sé. Lo si incontra all'interno della grande
Biblioteca di Stato di Berlino, quella dell'architetto Hans Scharoun.
Sono parole che richiamano l'antica epica e subito riappare,
introdotta dall'invocazione alla musa, il bambino.
Nessun commento:
Posta un commento