Introduzione

Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d'isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l'immagine del suo volto.

Jorge Luis Borges, Epilogo da L'artefice, 1960

giovedì 21 luglio 2016

Il cielo sopra Berlino o la terra sotto il cielo - Parte 1

Pubblico nel blog alcune rapide riflessione scritte rapidamente ma tenute in sedimentazione da lunghissimo tempo. Possano far la loro strada e magari tornare per altre vie...



Un po' di anni fa, non ricordo se avevo già finito il Liceo, ritagliai dalle pagine di Repubblica delle fotografie naturalistiche per nulla banali. Ne ricordo una in particolare: quella della coda di un grosso rettile sopra una pozza d'acqua. Nell'articolo si parlava di un fotografo brasiliano, Joao Salgado, che si era dedicato ad un progetto fotografico dal titolo “Genesi”. Le immagini tratte da questo lavoro, dal titolo chiaramente fondativo di un'opera che anela ad un pubblico universale e di ogni tempo, erano foto in bianco e nero, di grande forza. Sembravano arrivare da un tempo più antico della storia. Evocavano scene che anticipavano la comparsa dell'uomo e che lo rimetteva entro i suoi limiti di ospite ultimo e giovane di una terra ben più antica.
Rimasi molto colpito dalla carica di suggestioni di quel lavoro. Tenetti ben a mente il nome di Salgado scoprendo poi gli altri suoi lavori fotografici. Recentemente l'ho riavvicinato per altra via. Non più attraverso le sue mute ed eloquenti foto ma grazie ad un film-documentario che Wim Wenders gli ha dedicato volendo illustrare la sua opera e la sua vicenda umana e artistica insieme. Un film lento. Lento come ogni cosa che vuol insegnare il tempo per l'ascolto, il silenzio, lo sguardo nelle cose. Ed un film a tratti faticoso e duro da digerire per la partecipazione alle immagini di maggior crudezza che Salgado ha raccolto nei suoi lavori di indagine della realtà degli ultimi del mondo. Nei progetti fotografici in cui si è trovato a narrare di migrazioni, fame, sofferenza e violenza. Sì perché le fotografie senza parole raccontano e lasciano nel tempo fermo dello scatto lo spazio per popolare quell'istante infinito di riflessione, ascolto, domande.
Wenders ha certo familiarità con il racconto per immagini. E come regista, mi concedo un'osservazione senza pretendere perizia e conoscenza, ama avvicinare la fotografia con lunghe scene ad inquadratura fissa e quasi senza azione apparente.
Il cielo sopra Berlino” è un film che mi ha colpito con la stessa intensità con la quale mi colpirono le foto di Salgado. Carico di suggestioni e anche solo per il fatto di rimanere idealmente non concluso, senza tener conto delle decine di voci diverse che per frammenti lo popolano lasciando istantanee sulle loro vite, ha una grande apertura che la sensibilità dello spettatore può “abitare”.
Mi piacerebbe scriverne. Non ne voglio fare un commento. Non lo voglio recensire. Non lo voglio analizzare. Vorrò parlarne per quello che è riuscito ad ispirarmi. Ne scriverò senza rivederlo perché più che la fedeltà e la correttezza ritengo importante ciò che conservo. Ciò che io ho accolto e rielaborato magari traviando o fraintendendo o mescolando ad altre cose che nel frattempo gli si sono andate a sovrapporre. L'unica cosa concreta e ferma sulla quale mi voglio poggiare sono le parole del film, che un tempo mi ero appuntato, ed il testo della poesia “Elogio dell'infanzia” (Lied vom Kindsein) di Peter Handke, che collaborò al film con Wenders, recitata all'apertura e successivamente. Le parole che mi ero appuntato sono invece quelle recitate da un anziano personaggio, un narratore. Il personaggio del vecchio narratore mi è particolarmente caro.
In apparenza sono parole distanti: parole dell'infanzia e parole della fatica del tempo.

Così si apre il film:

«Quando il bambino era bambino,
se ne andava a braccia appese.
Voleva che il ruscello fosse un fiume,
il fiume un torrente,
e questa pozza il mare.
Quando il bambino era bambino,
non sapeva d’essere un bambino.
Per lui tutto aveva un’anima,
e tutte le anime erano tutt’uno.
Quando il bambino era bambino,
su niente aveva un’opinione.
Non aveva abitudini.
Sedeva spesso a gambe incrociate,
e di colpo sgusciava via.
Aveva un vortice tra i capelli,
e non faceva facce da fotografo.

[interruzione]

Quando il bambino era bambino,
era l’epoca di queste domande:
Perché io sono io, e perché non sei tu?
Perché sono qui, e perché non sono lì?
Quando è cominciato il tempo, e dove finisce lo spazio?
La vita sotto il sole, è forse solo un sogno?
Non è solo l’apparenza di un mondo davanti al mondo,
quello che vedo, sento e odoro?
C’è veramente il male?
E gente veramente cattiva?
Come può essere che io, che sono io,
non c’ero prima di diventare?
E che una volta io, che sono io,
non sarò più quello che sono?


Le parole della poesia evocano l'età che sembra essere perduta, ormai lontana. “Quando il bambino era bambino” e ormai non più. Mettono insieme con semplicità la leggerezza dell'infanzia, la libertà e al tempo stesso la fantasia e lo sguardo vitale sulle cose, ancora incantato. E nell'ingenuità incrociano grandi temi che forse crescendo si tengono lontani perché stanchi del fatto di non trovare mai la risposta ultima.
Sembra quasi essere speculare al brano della prima lettera ai Corinzi di San Paolo (1Cor 13,11-12)

Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino; ma quando sono diventato uomo, ho smesso le cose da bambino. Poiché ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia; ora conosco in parte; ma allora conoscerò pienamente, come anche sono stato perfettamente conosciuto.”

Quando sono diventato uomo, ho smesso le cose da bambino” dice San Paolo. Sembra dire, nel contesto dell'intero brano, che come la condizione dell'infanzia viene superata così quella dell'imperfezione della nostra conoscenza sarà superata quando vedremo Dio. Ma non è forse un ritorno a quell'infanzia, e non il suo abbandono, che nel Vangelo ci viene indicato come via per il Regno dei Cieli? (Mt 18,3)
Nei versi che aprono il film appare forte l'infanzia delle domande, della capacità di incuriosirsi, di partecipare, del dubbio che non è angoscioso. Versi che suonerebbero strani agli angeli del film, guardiani e custodi degli uomini, perfetti ma distaccati, incapaci di sentire e provare le esperienze umane.

Alle parole dell'Elogio dell'infanzia seguono più avanti nel film quelle che si possono ascoltare nella testa e nel pensiero di un vecchio personaggio. Un anziano, Omero, che si riconosce come narratore. Non del film ma narratore in sé. Lo si incontra all'interno della grande Biblioteca di Stato di Berlino, quella dell'architetto Hans Scharoun. Sono parole che richiamano l'antica epica e subito riappare, introdotta dall'invocazione alla musa, il bambino.

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