Introduzione

Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d'isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l'immagine del suo volto.

Jorge Luis Borges, Epilogo da L'artefice, 1960

lunedì 8 settembre 2014

Riflessione agostana e vagante...

Articolo per il numero di settembre della rivista on line Quid Culturae www.qculturae.it/
Una decina di giorni fa leggevo sul giornale uno dei vari e magari scontati articoli che per sommi capi elogiava le virtù di un sano riposo del cervello in estate. L’articolo, su La Repubblica, prendeva le mosse da uno studio del 2011 dei neuroscienziati Daniel J.Levitin e Vinod Menon che spiega come il nostro cervello funzioni secondo due reti neuronali che agiscono in alternanza “come un’altalena a dondolo nel cervello”. Banalizzando moltissimo la questione, una rete è attiva nella concentrazione mentre l’altra lascia la nostra mente vagare. A regolarle nel loro alternarsi provvede un filtro regolato da un’area del cervello collocata sulla parte superiore del cranio che, se stressato troppo da un bombardamento di notizie, messaggi e informazioni, ci obbliga a frammentare la nostra concentrazione e ci porta all’affaticamento. Ancor prima di elogiare il sonnellino (cosa che mi trova particolarmente d’accordo) per recuperare forze mentali e non solo l’articolo ci suggerisce di tenere a freno il “multitasking”: concentrandosi, infatti,  su una sola cosa per volta per periodi non frammentati si dovrebbe poter notare un aumento della nostra creatività. Lo stesso continua poi: “Diversi studi hanno dimostrato che passeggiare nella natura o ascoltare musica sono attività in grado di innescare la modalità “mente vagante” […] Sognare a occhi aperti produce creatività e le attività creative ci insegnano come agire, ci danno la capacità di cambiare il mondo, di modellarlo a nostro piacimento, di avere un effetto positivo sul nostro ambiente.” Insomma in qualche modo un elogio della leggerezza del pensiero che proprio quando è libero anche di perdere un po’ di tempo ci dona frutti inaspettati e validi.
Scrivo nell’ultimo pomeriggio di ferie e torno a questa lettura fatta perché mi si è allacciato improvvisamente un filo logico tra un po’ di pensieri (forse allora è vero che la mente deve vagare). Sono andato a riprendere il testo in mano convinto di averci letto la prima volta la parola “attività contemplativa” insieme a “creativa”. Leggendo scopro però di essermelo inventato, di averla messa io. Forse l’ho ficcata interpolando tra le parole mente vagante e creativa. O forse ho malinteso … (Cos’è in fondo il malinteso se non quello spazio neutrale e di incomprensione che tradisce la volontà di chi scrive per permettermi di fare mio, e a modo mio, ciò che mi si dice?)
Contemplare: questa era la parola che avevo voluto capire e leggerci e questa era la parola che mi faceva pensare. Mi faceva pensare a questa azione inusuale e forse troppo antica. La dimensione del sostare, del sospendere, dell’aprire lo sguardo e dello svuotarsi dai propri piccoli pensieri. Cosa c’entra tutto questo con un discorso di architettura che mi è stato chiesto? Il nesso essenzialmente sta nel potersi fare questa luogo di contemplazione ma soprattutto luogo del vuoto, della dimensione aperta ad accogliere. Chi ha fatto anche pochi studi di architettura sa che la dimensione essenziale dell’architettura è la sapiente creazione di spazi[1], quello dei vuoti di cui muri, recinti e coperture sono strumento. La natura dell’architettura è proprio la creazione dei luoghi per l’uomo, dei vuoti che può occupare, abitare e vivere. La buona architettura sa offrire i luoghi perché l’uomo possa abitarli compiutamente. Che siano accoglienti, suggestivi, armoniosi e che egli possa riempire col deposito delle proprie esperienze e sogni… luoghi che accolgono, che danno rifugio e calore ma che non impongono, condizionano e schiacciano. Luoghi che possano essere esplorati, dei vuoti attivi che il nostro occhio, le nostre mani ed i nostri piedi esplorano, percorrono, scoprono e stratificano di significati, memorie ed affetti. Dei vuoti emozionanti come quelli delle sculture dell’artista spagnolo Jorge Oteiza[2] che offrono un dentro semplice, solo all’apparenza, da indagare. La buona architettura non teme questo essere vuoto[3]. E un bel vuoto, fecondato dalla luce, posseduto e abitato è anche il luogo della contemplazione: la scena in cui la nostra mente può vagare, popolare, creare, raccogliersi, volare e rasserenarsi. Lo stesso Sant’Ignazio nei suoi esercizi spirituali chiedeva di ricostruire nella mente gli ambienti per la contemplazione del Mistero e del sacro e di collocarsi lì. Una buona architettura è quindi anche uno spazio della contemplazione e della creatività ascetica o ludica. E lo è sia che si parli dei gioielli dell’architettura sacra, delle venerabili biblioteche di antichi monasteri, di studioli quale quello che Federico da Montefeltro aveva ad Urbino, che di modesti studi d’appartamento allestiti con un minimale arredo svedese da montare sia che si parli di studi in penombra con grandi scrivanie in legno che nell’accumulo di carte scritte, volumi, foto e astucci trova la sua aura di sapienza e cultura o di paesaggi urbani e rurali adagiati in piano o inerpicati.
L’occhio (e la mente) dell’uomo è forse più facilmente stimolato dall’eclatante, dal pieno e dal rumoroso, dal grande, dal prezioso e dal nuovo. Tutto questo richiede però tensione e concentrazione, lo stimolo a raffia della prima rete neuronale per riprendere l’articolo da cui sono partito.
L’architettura e la nostra architettura contemporanea stimolano in questo senso (la “nostra” perché il più delle volte quella di valore ci è lontana e nascosta) : ci chiedono attenzione ad ogni angolo. Ci tengono impegnati come nella nostra vita colpita dalle raffiche di sms, tweet, notifiche di facebook ed email, notiziari e pubblicità. La contemporaneità è il luogo, forse solo apparentemente e superficialmente, della ricerca dell’originale, nuovo e accattivante quando non è banale edilizia guidata dal nume del risparmio e del poco problematico. E’ la dimensione della rapidità del social network. Sentiamo che non sta facendo storia e non ne può fare. Al massimo ci attendiamo da essa cronaca e chiacchiera. Non ci vediamo una sostanza di fondo. Forse è per questo che non ci affascina.
Per la nostra “mente vagante”, rasserenante e pacifica, forse ha più fascino non la città della firma, dell’originalità e della sperimentazione ma quella della tradizione, quella canonica, quella omogenea e silenziosa che non segna stonature. Quella che il nostro sguardo percorre senza fatica fino a che non viene condotto ad altri pensieri da un campanile, da un terrazzo, da una loggia in ombra, da un alto muro che lascia intravvedere un giardino nascosto. Quella forse pittoresca di uno qualsiasi dei nostri borghi in terra e argilla cotta, monomaterici, uniformi e vari nella somiglianza. I borghi che di lontano sembrano naturalmente una concrezione di terreno. O quella dell’unicità dell’arcipelago veneziano costruito su un unico modello di edificio pressoché unitario o della densa cittadella orientale in fango e paglia seccati al sole o della rigida città ottocentesca, regolare ed uniforme, abbandonata dal movimento moderno e progettata a partire da sistematici manuali che forse non hanno dato capolavori ma, in effetti, edifici decorosi e gradevoli.
Questi forse sono le città ed i luoghi per la “mente vagante”. Luoghi per la contemplazione ed il sogno, forse semplici e banali ma capaci di contenere appigli per una mente che vuole avere il gusto di distrarsi e di oziare. Luoghi forse anonimi, senza una firma visionaria, luoghi scritti con i poveri strumenti della geometria dell’uomo. Luoghi possibili tutt’ora come nelle Terme dell’architetto Zumthor a Vals  o come possibili lo sono stati nella Certosa di Pavia, luogo per la vita raccolta e comunitaria in una sequenza di volumi legati a chiudere un ampio prato quadrato,  terreno e aperto a quel vuoto che ci interroga tutti. 

[1] Bruno Zevi, Saper vedere l’architettura, 1948
[2] Carlos Martì Arìs, Silenzi eloquenti.Borges, Mies van der Rohe, Ozu, Rothko, Oteiza,  2002
[3] Fernando Espuelas, Il vuoto. Riflessioni sullo spazio in architettura, 2004