Introduzione

Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d'isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l'immagine del suo volto.

Jorge Luis Borges, Epilogo da L'artefice, 1960

lunedì 8 settembre 2014

Riflessione agostana e vagante...

Articolo per il numero di settembre della rivista on line Quid Culturae www.qculturae.it/
Una decina di giorni fa leggevo sul giornale uno dei vari e magari scontati articoli che per sommi capi elogiava le virtù di un sano riposo del cervello in estate. L’articolo, su La Repubblica, prendeva le mosse da uno studio del 2011 dei neuroscienziati Daniel J.Levitin e Vinod Menon che spiega come il nostro cervello funzioni secondo due reti neuronali che agiscono in alternanza “come un’altalena a dondolo nel cervello”. Banalizzando moltissimo la questione, una rete è attiva nella concentrazione mentre l’altra lascia la nostra mente vagare. A regolarle nel loro alternarsi provvede un filtro regolato da un’area del cervello collocata sulla parte superiore del cranio che, se stressato troppo da un bombardamento di notizie, messaggi e informazioni, ci obbliga a frammentare la nostra concentrazione e ci porta all’affaticamento. Ancor prima di elogiare il sonnellino (cosa che mi trova particolarmente d’accordo) per recuperare forze mentali e non solo l’articolo ci suggerisce di tenere a freno il “multitasking”: concentrandosi, infatti,  su una sola cosa per volta per periodi non frammentati si dovrebbe poter notare un aumento della nostra creatività. Lo stesso continua poi: “Diversi studi hanno dimostrato che passeggiare nella natura o ascoltare musica sono attività in grado di innescare la modalità “mente vagante” […] Sognare a occhi aperti produce creatività e le attività creative ci insegnano come agire, ci danno la capacità di cambiare il mondo, di modellarlo a nostro piacimento, di avere un effetto positivo sul nostro ambiente.” Insomma in qualche modo un elogio della leggerezza del pensiero che proprio quando è libero anche di perdere un po’ di tempo ci dona frutti inaspettati e validi.
Scrivo nell’ultimo pomeriggio di ferie e torno a questa lettura fatta perché mi si è allacciato improvvisamente un filo logico tra un po’ di pensieri (forse allora è vero che la mente deve vagare). Sono andato a riprendere il testo in mano convinto di averci letto la prima volta la parola “attività contemplativa” insieme a “creativa”. Leggendo scopro però di essermelo inventato, di averla messa io. Forse l’ho ficcata interpolando tra le parole mente vagante e creativa. O forse ho malinteso … (Cos’è in fondo il malinteso se non quello spazio neutrale e di incomprensione che tradisce la volontà di chi scrive per permettermi di fare mio, e a modo mio, ciò che mi si dice?)
Contemplare: questa era la parola che avevo voluto capire e leggerci e questa era la parola che mi faceva pensare. Mi faceva pensare a questa azione inusuale e forse troppo antica. La dimensione del sostare, del sospendere, dell’aprire lo sguardo e dello svuotarsi dai propri piccoli pensieri. Cosa c’entra tutto questo con un discorso di architettura che mi è stato chiesto? Il nesso essenzialmente sta nel potersi fare questa luogo di contemplazione ma soprattutto luogo del vuoto, della dimensione aperta ad accogliere. Chi ha fatto anche pochi studi di architettura sa che la dimensione essenziale dell’architettura è la sapiente creazione di spazi[1], quello dei vuoti di cui muri, recinti e coperture sono strumento. La natura dell’architettura è proprio la creazione dei luoghi per l’uomo, dei vuoti che può occupare, abitare e vivere. La buona architettura sa offrire i luoghi perché l’uomo possa abitarli compiutamente. Che siano accoglienti, suggestivi, armoniosi e che egli possa riempire col deposito delle proprie esperienze e sogni… luoghi che accolgono, che danno rifugio e calore ma che non impongono, condizionano e schiacciano. Luoghi che possano essere esplorati, dei vuoti attivi che il nostro occhio, le nostre mani ed i nostri piedi esplorano, percorrono, scoprono e stratificano di significati, memorie ed affetti. Dei vuoti emozionanti come quelli delle sculture dell’artista spagnolo Jorge Oteiza[2] che offrono un dentro semplice, solo all’apparenza, da indagare. La buona architettura non teme questo essere vuoto[3]. E un bel vuoto, fecondato dalla luce, posseduto e abitato è anche il luogo della contemplazione: la scena in cui la nostra mente può vagare, popolare, creare, raccogliersi, volare e rasserenarsi. Lo stesso Sant’Ignazio nei suoi esercizi spirituali chiedeva di ricostruire nella mente gli ambienti per la contemplazione del Mistero e del sacro e di collocarsi lì. Una buona architettura è quindi anche uno spazio della contemplazione e della creatività ascetica o ludica. E lo è sia che si parli dei gioielli dell’architettura sacra, delle venerabili biblioteche di antichi monasteri, di studioli quale quello che Federico da Montefeltro aveva ad Urbino, che di modesti studi d’appartamento allestiti con un minimale arredo svedese da montare sia che si parli di studi in penombra con grandi scrivanie in legno che nell’accumulo di carte scritte, volumi, foto e astucci trova la sua aura di sapienza e cultura o di paesaggi urbani e rurali adagiati in piano o inerpicati.
L’occhio (e la mente) dell’uomo è forse più facilmente stimolato dall’eclatante, dal pieno e dal rumoroso, dal grande, dal prezioso e dal nuovo. Tutto questo richiede però tensione e concentrazione, lo stimolo a raffia della prima rete neuronale per riprendere l’articolo da cui sono partito.
L’architettura e la nostra architettura contemporanea stimolano in questo senso (la “nostra” perché il più delle volte quella di valore ci è lontana e nascosta) : ci chiedono attenzione ad ogni angolo. Ci tengono impegnati come nella nostra vita colpita dalle raffiche di sms, tweet, notifiche di facebook ed email, notiziari e pubblicità. La contemporaneità è il luogo, forse solo apparentemente e superficialmente, della ricerca dell’originale, nuovo e accattivante quando non è banale edilizia guidata dal nume del risparmio e del poco problematico. E’ la dimensione della rapidità del social network. Sentiamo che non sta facendo storia e non ne può fare. Al massimo ci attendiamo da essa cronaca e chiacchiera. Non ci vediamo una sostanza di fondo. Forse è per questo che non ci affascina.
Per la nostra “mente vagante”, rasserenante e pacifica, forse ha più fascino non la città della firma, dell’originalità e della sperimentazione ma quella della tradizione, quella canonica, quella omogenea e silenziosa che non segna stonature. Quella che il nostro sguardo percorre senza fatica fino a che non viene condotto ad altri pensieri da un campanile, da un terrazzo, da una loggia in ombra, da un alto muro che lascia intravvedere un giardino nascosto. Quella forse pittoresca di uno qualsiasi dei nostri borghi in terra e argilla cotta, monomaterici, uniformi e vari nella somiglianza. I borghi che di lontano sembrano naturalmente una concrezione di terreno. O quella dell’unicità dell’arcipelago veneziano costruito su un unico modello di edificio pressoché unitario o della densa cittadella orientale in fango e paglia seccati al sole o della rigida città ottocentesca, regolare ed uniforme, abbandonata dal movimento moderno e progettata a partire da sistematici manuali che forse non hanno dato capolavori ma, in effetti, edifici decorosi e gradevoli.
Questi forse sono le città ed i luoghi per la “mente vagante”. Luoghi per la contemplazione ed il sogno, forse semplici e banali ma capaci di contenere appigli per una mente che vuole avere il gusto di distrarsi e di oziare. Luoghi forse anonimi, senza una firma visionaria, luoghi scritti con i poveri strumenti della geometria dell’uomo. Luoghi possibili tutt’ora come nelle Terme dell’architetto Zumthor a Vals  o come possibili lo sono stati nella Certosa di Pavia, luogo per la vita raccolta e comunitaria in una sequenza di volumi legati a chiudere un ampio prato quadrato,  terreno e aperto a quel vuoto che ci interroga tutti. 

[1] Bruno Zevi, Saper vedere l’architettura, 1948
[2] Carlos Martì Arìs, Silenzi eloquenti.Borges, Mies van der Rohe, Ozu, Rothko, Oteiza,  2002
[3] Fernando Espuelas, Il vuoto. Riflessioni sullo spazio in architettura, 2004

giovedì 28 agosto 2014

ARCHITETTURA DEL SUBLIME - ARTICOLO PER LA RIVISTA OSSERVATORIO C-MINIERA


Nella “Lettura” del Corriere della Sera qualche settimana fa Guido Vitiello prendeva spunto da un libro pubblicato da Sianne Ngai dell’università di Stanford dedicato alle categorie estetiche che dominano la sensibilità corrente. Nell’articolo si parla del bello e del sublime come categorie ormai in ombra, come sovrani decaduti che, chiusi nelle loro roccaforti, mantengono ormai solo un severo prestigio. E’ più comune ormai parlare di carino, interessante e così via.
Sublime e Bello sono parole nette e forti. Forse, effettivamente non molto adatte ad un’epoca di sensibilità attutita e indifferente. Forse è per questo che il carino è molto più comune nelle parole, nei commenti e nelle descrizioni. E’ accomodante e permette di non spingersi molto al di là del “normale”.
In queste poche righe si propone un piccolo percorso attorno ad una parola, Sublime, sicuramente polverosa. Attraverso essa si entrerà all’interno di una casa, senza mai descriverla puntualmente, con il gusto per indagare non delle stanze ma una sensibilità.

La riflessione sul Sublime, categoria forse ambigua nel parlare comune, si fa attenta nel ‘700, in un mondo “ampio”, in un mondo in cui l’ordine pacificato e composto dell’umanesimo poteva sembrare stretto. In un mondo in cui la rovina, le rovine e le civiltà passate mostravano sempre di più il loro fascino decadente ed emotivamente stimolante ai pensatori e agli artisti che si aprivano al mondo e alla sua storia oltre che con i libri, con il viaggio: il celebre Grand Tour, che si spingeva sempre più oltre Roma, arrivava in Sicilia e attraversava anche il Mediterraneo per aprirsi piano piano all’oriente più vicino. La quieta grandezza e la nobile semplicità di cui ci parlava Winckelmann nei suoi studi sull’arte della classicità greco-romana, modello ineguagliabile di bello, risultato di armonica composizione, razionalità ed equilibrio non è più l’unico interesse di chi guarda al passato con l’occhio fisso sul presente.
Mentre nel Rinascimento si riteneva possibile elaborare modelli armonici capaci di ricreare, attraverso la composizione secondo dati sistemi proporzionali, nel piccolo dell’opera, un microcosmo: piccolo sistema ordinato, rimandante o immagine di un macrocosmo trascendente, in età romantica e nell’ambito della sua sensibilità l’innalzamento al trascendentale non scaturisce dalla composizione armonica e definibile. Nel ‘700 è nell’incapacità di definire, di commisurare, di comprendere razionalmente che si trascende la sensibilità.
E’ in questo contesto che troviamo le riflessioni di Edmund Burke per il quale il sublime produce l’emozione più forte che si possa sentire: esso acuisce la tensione; o le riflessioni di Kant per il quale mentre il bello scaturisce dalla contemplazione della forma dell’oggetto (realtà fenomenica), da qualcosa di limitato, il sublime invece da quella di qualcosa sempre in forma fenomenica ma tendente all’illimitato, informe, non definito, come il cielo stellato o una tempesta grandiosa. Il sublime porta stupore, meraviglia e turbamento, turba la contrapposizione tra ciò che con l’immaginazione si intuisce e ciò che i nostri sensi non ci permettono di raggiungere. Dalla consapevolezza della nostra limitatezza scaturisce l’esaltazione di ciò che ci permette di trascendere i limiti della nostra sensibilità, usando le parole di Kant il sublime “attesta una facoltà dell’animo superiore a ogni misura dei sensi”.

L’architettura non può mai essere per sua natura immisurabile, illimitata, trascendente nella sua matericità ma può assumere caratteri evocativi, suggestivi, grandiosi, misteriosi nel suo gioco di forme, luci e colori, nella mutevolezza del suo formarsi nel tempo o nel suo disfarsi (si pensi al fascino delle rovine). Può essere sublime, può turbare, colpire la sensibilità e affascinare. Può condurre in un viaggio che può essere al tempo stesso intimistico e fuori di sé.
E qui torniamo a quanto anticipato: casi interessanti in cui intraprendere viaggi intimi e sublimi possono essere quei microcosmi personali che chiamiamo case quando sono capaci di rivelare nel privato un calore ed una sensibilità complessa ben al di là dell’ingessata immagine che si da in pubblico di sé.

A cavallo tra ‘700 e ‘800 a Londra per aggiunte successive, variazioni e mutazioni lunghe decenni uno degli architetti più in vista d’Inghilterra, John Soane si costruì a Lincoln Inn’s Field il proprio rifugio. [consiglio al lettore: la ricerca per immagini di Google sarà sicuramente d’aiuto per accompagnare le suggestioni qui scritte]. La critica che Soane muoveva ai suoi contemporanei, di costruire edifici vuoti, privi di emozioni e significati, banali si rende qui evidente. La semplicità e la ripetizione formale, non trovano spazio, piuttosto a ripetersi sono soluzioni singolari e trattamenti diversi degli spazi, caratterizzazioni estreme in accordo con quanto si dice in Le génie de l’architecture di Le Camus de Mézières, tra le letture più importanti per la formazione di John Soane:

ogni camera deve avere un carattere particolare. L’analogia e il rapporto delle proporzioni determinano le nostre sensazioni. Una stanza ce ne fa desiderare un’altra: quest’ansia occupa la nostra mente e la tiene sulle spine.”[1]

La realizzazione dell’architetto inglese riflette queste parole. La complessità dei luoghi, arricchita dall’uso dei colori e della luce creano un percorso all’interno della casa tra spazi dilatati e concentrati, bui e luminosi, non lascia allo spettatore indifferenza o quieta contemplazione, è colpito ed interrogato e stimolato.  Possiamo anche dire turbato, ripensiamo alle parole: “quest’ansia occupa la nostra mente e la tiene sulle spine.
 Siamo di fronte ad una nuova sensibilità: romantica. Il godimento estetico non deriva da una insita bellezza formale, ma dall’effetto, dall’impressione e dall’emozione dello spettatore; spettatore che è un individuo in equilibrio tra ragione e sentimento e non una pura razionalità cartesiana.
La poesia, la capacità espressiva e comunicativa dell’architettura si mostra prepotente. Ciò che mostra questa casa è la vicenda di colui che l’ha vissuta o meglio di colui attorno al quale è cresciuta.
Tale modo di concepire un’opera si evince già dalle riflessioni degli architetti francesi come Blondel o Le Camus de Mezieres che partendo dai concetti di carattere e convenancerendono manifesta l’idea che un’abitazione deve mostrare chi la abita, deve essere diversa a seconda che sia di un magistrato, prete o militare. Analoghe riflessioni sulla capacità poetico-comunicativa dell’opera architettonica erano condotte da Boullée che nella sua opera Architecture. Essai sur l’art dice: “I nostri edifici, particolarmente quelli pubblici, dovrebbero in una certa misura divenire dei poemi. Essi dovrebbero suscitare in noi delle sensazioni corrispondenti alla funzione da loro svolta”.[2]
Il racconto di sé fatto nella casa è frutto della particolare sensibilità di Soane di stampo romantico ma anche dell’influenza dovuta al suo interesse per l’opera di Rousseau. Verso l’autore francese Soane sentiva una particolare simpatia, per chi come lui aveva l’ossessione di essere vittima di complotti e incomprensioni. Questo spiega molti stati interiori e atteggiamenti come quello di cupo isolamento dovuto alla morte della moglie nel Novembre del 1815 e al difficile rapporto col figlio George. La lettura delle Confessioni o di altri libri come i dolori del giovane Werther di Goethe, andavano nella direzione di stimolare l’interesse per la sensibilità individuale. Nella lettura della narrazione dell’interiorità dello scrittore francese Soane trovava sostegno, un personaggio con il quale condivideva qualcosa. Non è azzardato rilevare nel filosofo che si sentiva incompreso dalla cultura dominante del suo tempo, marginale rispetto ad essa,  critico nei confronti della degradata società moderna alla quale contrapponeva la purezza antica un possibile parallelo nell’architetto critico nei confronti dei suoi contemporanei, mediocri ed incapaci di far poesia con i materiali dell’architettura.
Rousseau parla di sé attraverso i suoi scritti e parallelamente Soane parla di sé massimamente attraverso la sua abitazione, sarà il primo architetto inglese a scrivere dei libri sulle proprie case e nel 1819 in una nota manoscritta disse: “l’architettura parla un linguaggio proprio ma, soprattutto, un edificio, al pari di un dipinto storico, deve raccontare le propria vicenda”[3] e così  anche quando scriverà la Description of the House and Museum on the North Side of Lincoln’s Inn Field nel 1830 tornerà a Rousseau, fonte della sua ossessione per l’autoanalisi, concludendo il libro con le sue parole “le temps dévoilera bien des choses; alors on saura pourquoi je me tais”.

La casa, ora museo, nasce già per ospitare e mostrare collezioni. Il collezionismo è un fenomeno da sempre collegato all’uomo, le cui origini vanno magari ricercate nel feticismo e nella sua idea forse consciamente dimenticata di beneficio ricevuto dal possessore dell’oggetto derivante dall’oggetto stesso. La collezione porta con sé temi associati come quello del tempo. In primo luogo come sfida al tempo e quindi alla morte e alla dimenticanza, in secondo luogo come volontà di rianimare il passato. E’ dal Rinascimento che del collezionismo si fa un’attività razionale ed ordinata. Le collezioni settecentesche di intellettuali e artisti reduci dai lunghi viaggi del Grand Tour, spesso oltre Roma, si inseriscono quindi in una tradizione.
Tradizione segnata ad esempio dai gabinetti di curiosità che nell’Europa del seicento raccoglievano ammirazione, raccolte di naturaliaartificialia e mirabilia spesso non razionalmente ordinate, che stupivano i visitatori, teatri di meraviglie, le famose Wunderkammer, al tempo stesso luoghi di meraviglia e di diletto intellettuale.
Si è detto come l’organizzazione non fosse razionale ma lasciata alla volontà del collezionista, come è nel caso della casa di John Soane, la collezione rappresenta un “teatro di memoria, una magica enciclopedia di messaggi”[4], rimandi all’esperienza del collezionista, alla sua storia e ai suoi studi. Nella Description of the House and the Museum Soane si riferisce proprio a questo parlando de
“…il desiderio naturale di lasciare la minor possibilità che queste opere d’arte vengano rimosse dalla posizione assegnata loro relativamente; essendo state ordinate come studi per la mia mente ed essendo state intese similarmente per giovare agli artisti delle future generazioni.”[5]
Ai sensi del visitatore erano presentati oggetti non semplicemente mostrati come emblemi di una esemplarità classica ma “reliquie” cariche di Sehnsucht (nostalgia), affidati alla memoria e alla meditazione, ispiratrici e richiami di un mondo lontano evocato. Richiami ad un passato, muse dotate di valore pedagogico, agitatori dell’animo e guide artistiche  ma anche caricati di senso in quanto proiezioni del collezionista.
La particolare sensibilità che si stabilisce nel rapporto tra individuo e ambiente personale emerge anche successivamente nel tempo dalle pagine degli scrittori decadentisti. Si pensi a D’Annunzio.

La casa di John Soane è fatta per essere esperita e i suoi materiali, oltre alla concreta pietra, ai mattoni, al ferro, al vetro e a quant’altro la regge sono anche immateriali: Luce, Magnificenza, Grandezze e Mistero.
Soane probabilmente portò via con se dall’esperienza di viaggio in Italia il desiderio di riscoprire ogni giorno nella sua casa a Londra le luminose atmosfere mediterranee. Lo studio e l’interesse, poi, per i testi francesi di fine settecento, tra i quali assume maggior importanza il libro di Lecamus de Mézières Le Génie de l’Architecture ou l’analogie de cet art avec nos sensations segnò profondamente la sua riflessione. E’ dal testo citato che egli deriva il suo interesse per il concetto di lumière mystérieuse: uno “strumento pieno di potere”. Essenzialmente l’idea espressa è che la luce riesce a caratterizzare gli ambienti, a creare effetti difficilmente esplicabili ma indubbiamente suggestivi. Boullée osserva che:

 “E’ la luce che produce in noi varie sensazioni contraddittorie, che dipendono dal suo essere brillante o tenebrosa … Se potessi evitare la luce diretta e ottenere la presenza e ottenere la sua presenza senza che lo spettatore si accorga della fonte da cui deriva, ne seguirebbe un effetto di luce misteriosa, che produrrebbe impressioni inesplicabili e, in un certo senso, un effetto magico veramente incantevole.”[6]

Gli effetti della luce misteriosa amplificano l’interesse per la singolarità degli ambienti della casa museo. Il suo mistero rende lo spettatore incapace di comprendere appieno e razionalmente la natura dello spazio, di ricondurre a misura. L’effetto valica i limiti dell’intelletto e stimola l’emozione. L’elemento luce è da sempre stimolo per l’immaginario umano grazie al suo essere ponte tra immanente e trascendente, la più spirituale tra le cose materiali, e dona senso di sacralità ai fulcri della casa dell’architetto inglese.
I sistemi di illuminazione che Soane utilizza sfidano le atmosfere del nord non semplicemente cercando di amplificare al massimo la luminosità perché come suggerisce Burke: “La luce in sé è cosa troppo comune perché possa produrre una forte impressione sulla mente, e senza una forte impressione non vi può essere nulla di sublime.”[7] La luce è chiamata a giocare, filtrata attraverso vetri colorati, con il candore luminoso dei gessi, con le tenui tinte delle tele, con i vivi colori delle pareti, si è spettatori di un sapiente gioco di disposizione.
Negli effetti di contrasto con l’oscurità assume ricchezza lo stimolo che lo spettatore riceve, ospite di una scena teatrale percorribile ed esplorabile.

Anche la Magnificenza è fonte del sublime. Una grande profusione di cose, splendide o pregevoli in se stesse, è magnifica. […] Il disordine apparente aumenta la grandiosità …”[8]
Vi sono anche molte descrizioni nei poeti e negli oratori che devono la loro sublimità a una ricchezza e a una profusione di immagini dalle quali la mente è così abbagliata, che le riesce impossibile seguire quella esatta coerenza e quell’accordo delle allusioni, che esigeremmo in ogni altro caso.” [9]

E’ sufficiente percorrere le stanze e richiamare alla mente le disposizioni degli oggetti, delle opere e delle rarità all’interno della casa di Lincoln’s Inn Field e la corrispondenza con le parole di Burke appare evidente. Soane espone per accumulo, tutt’attorno al visitatore si sovrappongono stimoli visivi, le immagini si presentano nella loro moltitudine. La serena contemplazione del singolo pezzo esposto è quasi impossibile. Per analogia ci si potrebbe immaginare in una selva dove siamo storditi e agitati da una moltitudine di voci, suoni, rumori e grida, dove alcuni superano gli altri facendosi udire con più forza.
Il Dome, caso esemplare, rivela l’ossessione dell’intellettuale e del collezionista per le sue collezioni.  Ossessione forse nostalgica per un passato lontano e ora più che mai indefinito, che non si identifica con la semplice aurea età della classicità greco-romana. Le collezioni di John Soane e la loro esposizione palesano un gusto settecentesco legato all’ampliamento della scoperta delle antiche civiltà oltre il campo europeo, amplificando e fornendo nuovi stimoli e al fascino per la classicità nelle sue rovine che emozionavano per il loro passato sconosciuto, sublimi spesso più nell’associazione ad idee grandiose che alla grandiosità stessa.
Anche la vastità è una delle più grandi “cause” del sublime. E’ in natura che essa si manifesta con più forza. La visione delle Alpi era una tra le più grandi suggestioni di cui i viaggiatori del Grand Tour riferivano, o è nel pensiero del cielo infinito che il pensiero si perde, così come di contro nel pensiero  del minuscolo e del nulla.
Ciò che più sconvolge lo spettatore di  fronte alla grandezza è il non riuscire a definire (nel senso etimologico di delimitare) a percepire nell’insieme. Pensiamo ad alcune incisioni di Piranesi dove a volte la sua vastità delle rovine ritratte sconfina il foglio.
Nessuna opera d’arte può esser grande se non in quanto illude: l’essere altrimenti è solo prerogativa della natura.”[10] Ciò che allora fa di uno spazio uno spazio sublime è la proporzione, ma una proporzione diversa da quella dei canoni classici, proporzione che impedisce allo spettatore una reale percezione, che illude; già il Barocco si era mosso in questa direzione. La compostezza classica lascia spazio ad una disarmonia ricercata, crea una tensione.
Si gioca quindi con gli spazi, creando sequenze di dilatazioni e compressioni. Creando, come nel Dome, un’altezza sproporzionata. Soane gioca con le dimensioni, distorcendole ed illudendo. Caratterizzando gli spazi nella singolarità, pensando alla percezione, lasciando da parte schemi compositivi palladiani. Non è da dimenticare anche l’uso degli specchi come strumento potente di illusione spaziale.
Il mistero (ciò che non è conosciuto e conoscibile, oltre ciò che si comprende) è la parola meno rassicurante ma forse più forte e appropriata per stimolare una sensibilità romantica. Ciò che gli ambienti nascondono è strettamente legato all’uso della luce di cui già si è parlato e la poetica del sublime è legata spesso all’inesplicabilità di ciò che si ha di fronte che muove l’animo.

Ogni casa può avere il fascino di rivelare particolari storie e sensibilità. Alcune lo possono fare in modo particolare, se ben guidati da chi le conosce bene, per noi che le visitiamo. Potrebbe essere interessante costruirsi un personale itinerario. Chissà… partendo dalla casa propria o quella dei nonni… passando per Villa Adriana a Tivoli dove, riprendendo le parole della Yourcenar, Adriano teneva udienza ai suoi ricordi, o il Vittoriale di D’Annunzio  la Scarzuola di Tommaso Buzzi dove in questi anni il padrone di casa che fa da guida vale forse al pari del posto.



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[1] citato in David Watkin, John Soane e l’Illuminismo, Casabella 660

[2] citato in Robin Middleton, David Watkin, Architettura. Ottocento, Electa, Milano, 2001, p. 192

[3] citato in David Watkin, John Soane e l’Illuminismo, Casabella 660

[4] Alessandra Mottola Molfino, Il libro dei musei, Umberto Allemandi & C., Torino, 1998, p.63

[5] John Soane, Description of the House and the Museum, dall’Exordium

[6] citato in Robin Middleton, David Watkin, Architettura. Ottocento, Electa, Milano, 2001, p. 192

[7] Edmund Buke, Inchiesta sul bello e sul sublime, Aesthetica edizioni, Palermo, 1985, p. 103

[8] Ibid., p. 101-102

[9] Ibid., p. 102

[10] Ibid., p. 100

giovedì 2 gennaio 2014

Una nuova storia

Da un paio di giorni mi sono messo a lavorare su una nuova storia. Nuova, neanche tanto... mi girava in testa da un pò. Il mio primo tentativo di scrivere qualcosa che assomiglia ad un libro può dirsi più o meno finito. Ora l'ho allontanato perchè ormai troppe aggiunte e troppi ripensamenti avrebbero soffocato le poche idee che l'hanno fatto partire. Tra un pò, quando me lo sarò dimenticato a sufficienza, lo rileggerò per renderlo comprensibile. Ma... tornado alla prima cosa: ho buttato giù qualche riga e due-tre fogli di appunti su una nuova storia. Era un'idea vecchia e vecchi sono tanti dei temi e degli spunti che ci andranno a finire. Male? Bene? Vedremo... mi sento in buona compagnia a riprendere in mano pensieri covati a lungo e mai raccontati. Due sono le persone che mi confortano: il primo è un certo Fabrizio De Andrè che diceva serenamente di aver avuto sempre poche idee ma in compenso fisse; l'altro è un certo "Marino", mio nonno che per anni mi ha raccontato sempre le stesse storie della guerra e della gioventù lasciando ad ogni replica dei racconti che la memoria si approfondisse e che nuovi particolari piano piano emergessero.