Introduzione

Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d'isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l'immagine del suo volto.

Jorge Luis Borges, Epilogo da L'artefice, 1960

domenica 24 luglio 2016

Il cielo sopra Berlino o la terra sotto il cielo - Parte 3


All'esterno

Non riesco a trovare la Potsdamerplatz.
No, credo sia qui.
No, no. Non può essere.
Perchè alla Potsdamerplatz c'era il Cafè Josty.
Ci venivo il pomeriggio a chiacchierare e a bere un caffè.
Guardavo la gente, dopo aver fumato i miei sigari da “Lohse & Wolff”.
Una tabaccheria prestigiosa proprio qui di fronte.
Allora, non può esser qui la Potsdamerplatz, no.
Non si incontra nessuno a cui poter chiedere.
Era una piazza animata.
Tram, omnibus a cavalli e due auto: la mia e quella della cioccolata Hamman.
Anche i magazzini Wertheim erano qui.
E poi, all'improvviso, là
sventolarono delle bandiere.
L'intera piazza ne era piena.
E la gente non era più gentile
e neanche la polizia.
Ma non mi do per vinto
finché non ho trovato la Potsdamerplatz.

Dove sono i miei eroi?
Dove siete voi, figli miei?
Dove stanno i miei?
Gli ottusi, quelli delle origini?

Chiamami, o musa, il povero immortale cantore
che, abbandonato dai mortali suoi uditori,
perse la voce lui che,
angelo del racconto,
è diventato il suonatore d'organetto là fuori,
ignorato e deriso,
alle soglie della terra di nessuno.

Narrare e vivere non possono mai essere del tutto cose distinte pena falsità e pochezza. La stessa falsità e pochezza di certe omelie ed esternazioni di pio sentimento. Il vecchio cerca la piazza dove guardava la gente, dove fumava e beveva il caffè. Dove si coinvolgeva secondo la sua indole e sensibilità prima che la gente non smise di perdere la gentilezza con la cui fine fece sparire anche la piazza, e gli uomini, e la ragione d'essere del cantore senza uditori.
E senza ascolto non si riesce neanche più a capire, a vedere.


Altra scena

Solo le strade romane portano ancora lontano,
sono le tracce più antiche, portano più lontano.
Qui, dov'è il colle?
Anche la pianura, anche Berlino
ha i suoi colli nascosti,
e là soltanto inizia il mio paese,
il paese dei racconti.
Perché tutti, già da bambini,
non vedono passaggi, punti e interstizi
giù sulla terra e su nel cielo?
Se ognuno li vedesse
ci sarebbe una storia senza assassini né guerre.

Finale

Nominami gli uomini e le donne e i bambini
che cercheranno me, il loro narratore,
cantore e corifeo perché essi
hanno bisogno di me
più di ogni altra cosa al mondo.

Siamo tutti sulla stessa barca.

L'ascolto di un senso che illumini la noia, la desolazione, l'alienazione torna essenziale. Senso che non è fine, immediato scopo, giustificazione economica e funzionale, utilità tecnica1. Senso e vita sono sulla stessa barca.






Appendice

La parte non letta nel film dell'Elogio dell'infanzia di Handke

Quando il bambino era bambino,
non riusciva ad inghiottire gli spinaci, i piselli, il riso al latte,
il cavolfiore bollito,
ed ora mangia tutto, e non solo per necessità.
Quando il bambino era bambino,
si risvegliò una volta in un letto estraneo,
ed ora gli accade sempre,
gli apparivano belli molti uomini,
e adesso soltanto in rari casi,
si rappresentava nitidamente un paradiso,
e adesso lo può al massimo intuire,
non riusciva ad immaginare il nulla,
ed oggi rabbrividisce al suo pensiero.
Quando il bambino era bambino
giocava con entusiasmo
e adesso è così preso dalla cosa come allora
solo se questa cosa è il suo lavoro.
Quando il bambino era bambino,
per nutrirsi gli bastavano pane e mela,
ed è ancora così.
Quando il bambino era bambino,
le bacche gli cadevano in mano,
come solo le bacche sanno cadere.
Ed è ancora così.
Le noci fresche gli raspavano la lingua,
ed è ancora così.
Ad ogni monte, sentiva nostalgia di una montagna ancora più alta,
e in ogni città sentiva nostalgia di una città ancora più grande.
E questo, è ancora così.
Sulla cima di un albero,
prendeva le ciliegie tutto euforico,
com’è ancora oggi.
Aveva timore davanti ad ogni estraneo,
e continua ad averne.
Aspettava la prima neve,
e continua ad aspettarla.
Quando il bambino era bambino,
lanciava contro l’albero un bastone, come fosse una lancia.
E ancora continua a vibrare.»

Peter Handke



1Vedere a riguardo il capitolo “Scopo e senso” in Romano Guardini, L'opera d'arte, Morcelliana, Brescia, 1998

venerdì 22 luglio 2016

Il cielo sopra Berlino o la terra sotto il cielo - Parte 2

Biblioteca 1

Narra, musa del narratore,
l'antico bambino gettato ai confini del mondo
e fa che in lui
ognuno si riconosca.

Col tempo quelli che m'ascoltavano
sono diventati miei lettori
e non siedono più in circolo
ma ognuno per sé
e nessuno sa nulla dell'altro.

Un vecchio sono io,
di voce stridula,
ma il racconto si leva ancora dal profondo
e la bocca lievemente aperta lo ripete,
con forza e facilità,
una liturgia dove nessuno va iniziato
al senso delle parole e delle frasi.

Il narratore invoca la musa perché faccia riconoscere ogni uomo nel bambino gettato nel mondo. Che ispiri in ognuno il ritorno all'infanzia curiosa e creatrice continua di senso. Un infanzia di relazioni che si aprono, ben disposte a priori, feconde prima di perdere la freschezza che porta a far sì che “nessuno sa nulla dell'altro.”
La narrazione del vecchio continua nella fatica non del suo farsi ma del suo accogliersi. Il vecchio appare come voce del mondo, distaccato da esso però. Preservato dai tumulti si dirà. Come se per guardare, cogliere e poi dire con sapienza servisse una distanza, la forza per allontanarsi temporaneamente dalle lotte di ogni giorno, dalle fatiche, dalle ansie per cogliere non la superficie ma il profondo.
Narrare/scrivere e vivere sembrano quasi dover allontanarsi perché o l'una o l'altra condizione sia piena. Torna alla mente la celebre frase di Cesare Pavese: “Ho imparato a scrivere, non a vivere.”


Biblioteca 2

Il mondo sembra oscurarsi,
al crepuscolo,
ma io lo racconto, come all'inizio,
con la mia cantilena che mi tiene in vita,
dispensato dai tumulti dell'ora
e risparmiato per il futuro.

Basta con l'espansione del tempo
avanti e indietro nei secoli.
Posso pensare solo da un giorno all'altro.
I miei eroi non sono più guerrieri e re, ma
i fatti di pace,
uno vale l'altro.
Le cipolle messe a seccare buone come
il tronco d'albero
che porta attraverso la palude.

Ma ancora nessuno è riuscito a cantare
un Epos di pace.
Cosa c'è nella pace che
alla lunga non entusiasma e
che non si presta al racconto?
Devo darmi per vinto, ora?
Se mi do per vinto allora
l'umanità perderà il suo cantore.
E quando l'umanità
avrà perso il suo cantore
avrà perso anche l'infanzia.

Quando ritroviamo il vecchio narratore la seconda volta troviamo un'amara constatazione: “Ma ancora nessuno è riuscito a cantare un Epos di pace.” Questo è il centro della poetica del vecchio. Tentare di narrare fatti di pace. Una nuova epica con tutta la sua forza, la sua gloria che non ha però da celebrare vinti, vincitori e sangue. Un'epica forse statica, silenziosa che fa fatica a smuovere gli animi. L'unica però che vale la pena costruire e narrare.
Dietro i lineamenti del vecchio mi immagino in trasparenza quella di generazioni di gente semplice, umile dedica al lavoro e alla famiglia, immagino i racconti dei miei nonni, immagino ciò che di buono ogni giorno è stato fatto senza clamore, immagino parole di conforto, perdono.
Immagino le tradizioni delle figure dei saggi o la lontana leggenda, sorta forse come mito per la condanna, dell'ebreo errante. L'uomo che, non avendo riconosciuto il Cristo, rifiutandolo come molta parte del suo popolo, viene condannato a vivere per sempre fino al suo definitivo ritorno. La condanna a vivere quindi e a vedere le persone amate abbandonarlo, la condanna a camminare sempre nell'attesa di riconoscerlo e liberarsi ma anche la possibilità di conoscere, di vedere, di non essere schiavo della velocità. Un'immagine che, non badando al giudizio antisemita, fotografa la condizione dell'umanità in sé. Esule continua, in cammino ma entusiasta più di dominio e potenza che non d'epica pacifica senza eroi e guerrieri. L'epica del paradiso perduto che l'umanità ed ogni uomo ha lasciato e lascia ogni giorno. Il paradiso che non è altrove ma in terra, sotto il Sole. E quindi ben più antica della maledizione della tradizione dell'ebreo errante è quella della cacciata dell'uomo da leggere ed interpretare ogni volta non nella letterarietà ma nel profondo.

Il racconto della Pace è l'indagine sul reale al di là delle malattie che lo insidiano. L'indagine che muove Qohelet nella desolazione del non senso dove tutto è vanità. A riguardo è sempre essenziale nella sua brevità un piccolo libretto del Cardinale Gianfranco Ravasi (Qohelet e le sette malattie dell'esistenza, Qiqajon).


giovedì 21 luglio 2016

Il cielo sopra Berlino o la terra sotto il cielo - Parte 1

Pubblico nel blog alcune rapide riflessione scritte rapidamente ma tenute in sedimentazione da lunghissimo tempo. Possano far la loro strada e magari tornare per altre vie...



Un po' di anni fa, non ricordo se avevo già finito il Liceo, ritagliai dalle pagine di Repubblica delle fotografie naturalistiche per nulla banali. Ne ricordo una in particolare: quella della coda di un grosso rettile sopra una pozza d'acqua. Nell'articolo si parlava di un fotografo brasiliano, Joao Salgado, che si era dedicato ad un progetto fotografico dal titolo “Genesi”. Le immagini tratte da questo lavoro, dal titolo chiaramente fondativo di un'opera che anela ad un pubblico universale e di ogni tempo, erano foto in bianco e nero, di grande forza. Sembravano arrivare da un tempo più antico della storia. Evocavano scene che anticipavano la comparsa dell'uomo e che lo rimetteva entro i suoi limiti di ospite ultimo e giovane di una terra ben più antica.
Rimasi molto colpito dalla carica di suggestioni di quel lavoro. Tenetti ben a mente il nome di Salgado scoprendo poi gli altri suoi lavori fotografici. Recentemente l'ho riavvicinato per altra via. Non più attraverso le sue mute ed eloquenti foto ma grazie ad un film-documentario che Wim Wenders gli ha dedicato volendo illustrare la sua opera e la sua vicenda umana e artistica insieme. Un film lento. Lento come ogni cosa che vuol insegnare il tempo per l'ascolto, il silenzio, lo sguardo nelle cose. Ed un film a tratti faticoso e duro da digerire per la partecipazione alle immagini di maggior crudezza che Salgado ha raccolto nei suoi lavori di indagine della realtà degli ultimi del mondo. Nei progetti fotografici in cui si è trovato a narrare di migrazioni, fame, sofferenza e violenza. Sì perché le fotografie senza parole raccontano e lasciano nel tempo fermo dello scatto lo spazio per popolare quell'istante infinito di riflessione, ascolto, domande.
Wenders ha certo familiarità con il racconto per immagini. E come regista, mi concedo un'osservazione senza pretendere perizia e conoscenza, ama avvicinare la fotografia con lunghe scene ad inquadratura fissa e quasi senza azione apparente.
Il cielo sopra Berlino” è un film che mi ha colpito con la stessa intensità con la quale mi colpirono le foto di Salgado. Carico di suggestioni e anche solo per il fatto di rimanere idealmente non concluso, senza tener conto delle decine di voci diverse che per frammenti lo popolano lasciando istantanee sulle loro vite, ha una grande apertura che la sensibilità dello spettatore può “abitare”.
Mi piacerebbe scriverne. Non ne voglio fare un commento. Non lo voglio recensire. Non lo voglio analizzare. Vorrò parlarne per quello che è riuscito ad ispirarmi. Ne scriverò senza rivederlo perché più che la fedeltà e la correttezza ritengo importante ciò che conservo. Ciò che io ho accolto e rielaborato magari traviando o fraintendendo o mescolando ad altre cose che nel frattempo gli si sono andate a sovrapporre. L'unica cosa concreta e ferma sulla quale mi voglio poggiare sono le parole del film, che un tempo mi ero appuntato, ed il testo della poesia “Elogio dell'infanzia” (Lied vom Kindsein) di Peter Handke, che collaborò al film con Wenders, recitata all'apertura e successivamente. Le parole che mi ero appuntato sono invece quelle recitate da un anziano personaggio, un narratore. Il personaggio del vecchio narratore mi è particolarmente caro.
In apparenza sono parole distanti: parole dell'infanzia e parole della fatica del tempo.

Così si apre il film:

«Quando il bambino era bambino,
se ne andava a braccia appese.
Voleva che il ruscello fosse un fiume,
il fiume un torrente,
e questa pozza il mare.
Quando il bambino era bambino,
non sapeva d’essere un bambino.
Per lui tutto aveva un’anima,
e tutte le anime erano tutt’uno.
Quando il bambino era bambino,
su niente aveva un’opinione.
Non aveva abitudini.
Sedeva spesso a gambe incrociate,
e di colpo sgusciava via.
Aveva un vortice tra i capelli,
e non faceva facce da fotografo.

[interruzione]

Quando il bambino era bambino,
era l’epoca di queste domande:
Perché io sono io, e perché non sei tu?
Perché sono qui, e perché non sono lì?
Quando è cominciato il tempo, e dove finisce lo spazio?
La vita sotto il sole, è forse solo un sogno?
Non è solo l’apparenza di un mondo davanti al mondo,
quello che vedo, sento e odoro?
C’è veramente il male?
E gente veramente cattiva?
Come può essere che io, che sono io,
non c’ero prima di diventare?
E che una volta io, che sono io,
non sarò più quello che sono?


Le parole della poesia evocano l'età che sembra essere perduta, ormai lontana. “Quando il bambino era bambino” e ormai non più. Mettono insieme con semplicità la leggerezza dell'infanzia, la libertà e al tempo stesso la fantasia e lo sguardo vitale sulle cose, ancora incantato. E nell'ingenuità incrociano grandi temi che forse crescendo si tengono lontani perché stanchi del fatto di non trovare mai la risposta ultima.
Sembra quasi essere speculare al brano della prima lettera ai Corinzi di San Paolo (1Cor 13,11-12)

Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino; ma quando sono diventato uomo, ho smesso le cose da bambino. Poiché ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia; ora conosco in parte; ma allora conoscerò pienamente, come anche sono stato perfettamente conosciuto.”

Quando sono diventato uomo, ho smesso le cose da bambino” dice San Paolo. Sembra dire, nel contesto dell'intero brano, che come la condizione dell'infanzia viene superata così quella dell'imperfezione della nostra conoscenza sarà superata quando vedremo Dio. Ma non è forse un ritorno a quell'infanzia, e non il suo abbandono, che nel Vangelo ci viene indicato come via per il Regno dei Cieli? (Mt 18,3)
Nei versi che aprono il film appare forte l'infanzia delle domande, della capacità di incuriosirsi, di partecipare, del dubbio che non è angoscioso. Versi che suonerebbero strani agli angeli del film, guardiani e custodi degli uomini, perfetti ma distaccati, incapaci di sentire e provare le esperienze umane.

Alle parole dell'Elogio dell'infanzia seguono più avanti nel film quelle che si possono ascoltare nella testa e nel pensiero di un vecchio personaggio. Un anziano, Omero, che si riconosce come narratore. Non del film ma narratore in sé. Lo si incontra all'interno della grande Biblioteca di Stato di Berlino, quella dell'architetto Hans Scharoun. Sono parole che richiamano l'antica epica e subito riappare, introdotta dall'invocazione alla musa, il bambino.

La luce, a volte... e il segreto

Nel leggere la raccolta poetica “La luce, a volte” dell'amico Filippo Davoli ho incontrato spesso tra i versi la parola “segreto”. Mi sono fermato ogni volta a rileggere il verso che la conteneva. Pensavo che presto avrei dovuto chiedere all'autore il senso profondo, per lui, di tale parola. Sì, perché mi piacerebbe sapere quale colore abbia per il poeta, quale memoria porta dentro, quale storia la parola “segreto”.
Non voglio indagarla eccessivamente, non voglio appesantire la libertà di un verso, sezionarlo fino ad ucciderlo. Non posso però non pensare al “segreto” insieme al suo doppio: “mistero”.
E se il secondo termine, liberato dagli usi rimandanti all'occulto, mi è sempre stato particolarmente significativo perché legato alla profondità delle grandi cose come la vita, l'uomo, il senso di questo mondo e la realtà di Dio (la parola usata per mostrare ciò che, immensamente grande e profondo, non è per sempre e totalmente conoscibile, perché sempre maggiore della nostra capacità, non lasciandoci però impotenti e disperati nell'ignoranza ma vitali e costantemente spinti all'apertura di un'esperienza sempre nuova), il primo termine mi si è sempre legato a ciò che è negato, impedito, custodito con la gelosia che respinge.
Rileggendo, perché poco scorrevole, il paragrafo appena concluso, noto che mi sono lasciato andare. Sono stato troppo netto nella distinzione dando forse l'impressione di voler distinguere anche tra un valore 'positivo' ed un valore 'negativo'. I significati sono certo molto più sfumati e nel correggere l'asprezza di quanto scritto penso anche alle parole delicate del Vangelo che nel parlare di Chi “vede nel segreto” certo richiama ad una più umile discrezione che sembra rischiare di perdersi in mezzo a troppo rumorose fanfaronate.

Tornando così alla dimensione del “segreto” più mite ed intimo, alla confidenza tra amici, al segreto raccolto di una casa dietro le cui mura spesso, passeggiando, riusciamo a cogliere solo l'alto dei soffitti offerti dallo scorcio delle finestre, mi viene in mente il tema dei giardini segreti: piccole oasi di quiete riparate da alti muri. Nelle nostre città, precluse all'occhio dei curiosi, spesso si offrono solo ammiccando con la sommità della vegetazione che tracima. Cortili, patii, orti veri e propri. Non ne sappiamo quasi nulla di solito. Non ne abbiamo la chiave. Sappiamo che si nascondono dai nostri occhi. Spesso sono antiche resistenze alla fame d'edificazione. A volte gabinetti antiquari di verde e reperti statuari, a volte miniature di parchi frondosi. Spesso giardini familiari.



Molto più recentemente un architetto colto come Francesco Venezia (negli anni '80) ha saputo indagare nuovamente il tema disegnando dei minuscoli paesaggi di cui far esperienza a Gibellina, in Sicilia. Piccoli giardini che oltre ad educare lo sguardo chiamando al silenzio, come i piccoli chiostri monastici forse riescono a fare, chiamano a guardare anche sopra l'orizzonte. In alto. Sopra il ritaglio di terra1. Lassù dove il segreto sembra svanire. Colto, poeticamente, dagli angeli umani raccontati da Wenders o, molto più prosaicamente, dallo sguardo tecnologico onnipresente che tutto registra e moltiplica in un sovraccumulo di informazioni: l'occhio di Google Earth che mette a nudo ogni nostra città e borgo. Che, dal cielo, rapisce l'immagine di ogni fazzoletto di terra.

Ma se, a terra, tornassimo difesi dentro questi piccoli giardini segreti e, in pace, pensassimo che in realtà da lì ci potremmo davvero riappropriare dall'ampiezza del cielo? Se non fossimo noi i guardati ma, nel segreto, guardassimo? Se trovassimo il giusto silenzio, il giusto tempo per usare i nostri di occhi e non delegassimo lo sguardo a migliaia di artifici e schermi, forse potremmo vedere così:

Con la sera
si stancarono i due o tre colori del patio.
Questa notte la luna, il chiaro cerchio, non domina il suo spazio,
Patio, cielo incanalato.
Il patio è il declivio
sul quale straripa il cielo nella casa.
Serena
l'eternità attende il crocevia delle stelle.
E' bello vivere con l'amicizia oscura
di un atrio, di una pergola e di una cisterna.

J.L. Borges, Un patio (da Fervore di Buenos Aires, 1923)






1L'etimologia di Tempio/Templum è legata ad un'antica radice indoeropea che vuol dire “tagliare” affine al greco “témenos”: recinto sacro

mercoledì 20 luglio 2016

Pensieri sparsi sulle follie di questi tempi

La nostalgia per i bei tempi andati è forse vecchia quanto l'umanità. Anche riprendendo in mano la letteratura latina troveremmo critica alla vita degenerata, alle nuove generazioni corrotte e svilite nei valori. Quindi non credo utile pensare che l'oggi sia il tempo della decadenza sempre e comunque.
Detto questo, però, ritengo che la rapidità delle evoluzioni che anche solo in un secolo o mezzo ci hanno investito ci stiano lasciando spaesati. La sempre maggior rapidità, l'ampliarsi dello spettro delle possibilità tecniche forse non hanno avuto gli stessi tempi della lenta maturazione di cui ogni persona e ogni generazione hanno bisogno per avere quel sano distacco critico che permetta loro di tenerli nel campo dello strumentale. Basti pensare alla capacità tecnologica delle comunicazioni.
Papa Francesco con realismo nell'enciclica "Laudato si'" nel capitolo intitolato "Deterioramento della qualità della vita umana e degradazione sociale"scrive:

"A questo si aggiungono le dinamiche dei media e del mondo digitale, che, quando diventano onnipresenti, non favoriscono lo sviluppo di una capacità di vivere con sapienza, di pensare in profondità, di amare con generosità. I grandi sapienti del passato, in questo contesto, correrebbero il rischio di vedere soffocata la loro sapienza in mezzo al rumore dispersivo dell'informazione."

A questo fa seguire poi una riflessione sulla necessità di maturazione umana e non di svilimento dato dalla privazione del vero incontro, ascolto, condivisione mascherato da una realtà incarnata da schermi. A prescindere dall'essere o meno credenti, tale aspetto della realtà merita attenzione.
Il tema della maturazione, della piena cura (coltivazione quasi) di sè personalmente e come comunità forse è il tema centrale di questo tempo di crisi.

La forza dell'attualità ce lo dice con violenza. Perché il successo mediatico, entusiasta e folle dell'internazionale del terrore targata oggi ISIS e dei suoi improvvisati adepti, ad esempio?
I fattori sono certo mille, misti e complessi ma un aspetto interessante non può non essere la perdita di senso in tanta parte della popolazione fragile, esclusa e debole legata ad una crisi profonda del nostro sistema sociale.
Su cosa si è retta negli ultimi decenni la vita dell'Occidente e di conseguenza del resto del mondo pian piano colonizzato in diversa maniera rispetto al passato? La promessa di benessere, di ricchezza, di accesso ai beni, di nuovi beni, di desideri da soddisfare e poi da inventare e soddisfare. Il meccanismo difficile da invertire del consumismo e della pubblicità. "Pietra angolare del consumismo, la pubblicità ci fa desiderare quello che non abbiamo e disprezzare quello che abbiamo. La pubblicità crea e ricrea l'insoddisfazione e la tensione del desiderio frustrato." (S.Latouche, Limite)
La crisi economica è stata più dura e devastante di quanto molti hanno percepito perché tutto era ed è diventato economia consumistica. Ha occupato ogni spazio perché si è alimentata di consumatori, di mercato e non è stata a servizio di uomini e comunità. Quando l'orizzonte è diventato avere, ottenere, raggiungere livelli sempre più alti di status e reddito, avere la tecnologia più accattivante, spendere fortune per telefoni cellulari dimenticando il resto è stato molto naturale che perdendo la prospettiva dorata di poter davvero raggiungere, rincorrendoli, questi bisogni imposti allora il nostro mondo si sia sfasciato. Nel momento in cui non faccio più parte del mondo del consumo, del benessere patinato allora a cosa mi appiglio? Cosa mi da sapienza e senso?
Ma un senso tutti lo dobbiamo avere. E forse la violenza, la prospettiva di una realizzazione grande e memorabile è un'offerta di senso allettante. Perché seconde generazioni di immigrati artificiosamente ricreano in pochissime settimane una loro identità legata ad un islamismo combattente antiquato e modernissimo al tempo stesso? Perché persone socialmente in difficoltà, sole, escluse, fragili prendono la via della violenza? Forse è il richiamo di un senso che vogliono dare alla loro vita in "periferia esistenziale".
Allora sì, è naturale che una grande bandiera che sa comunicare, che sa davvero far pubblicità, che sputa su questo Occidente che le fa schifo possa attirare a sé tantissimi sbandati.
E poi, sì, questa nuovo brand ISIS funziona davvero in Occidente. Non serve molto tempo, non serve una lenta maturazione. E' rapido, indipendente, liberissimo e in un attimo accende su di sé i riflettori.
Un atto di follia quando il rancore, l'insoddisfazione e la violenza premono diventa evento, spettacolo, fama!