Nel
leggere la raccolta poetica “La
luce, a volte”
dell'amico Filippo Davoli ho incontrato spesso tra i versi la parola
“segreto”. Mi sono fermato ogni volta a rileggere il verso che la
conteneva. Pensavo che presto avrei dovuto chiedere all'autore il
senso profondo, per lui, di tale parola. Sì, perché mi piacerebbe
sapere quale colore abbia per il poeta, quale memoria porta dentro,
quale storia la parola “segreto”.
Non
voglio indagarla eccessivamente, non voglio appesantire la libertà
di un verso, sezionarlo fino ad ucciderlo. Non posso però non
pensare al “segreto” insieme al suo doppio: “mistero”.
E
se il secondo termine, liberato dagli usi rimandanti all'occulto, mi
è sempre stato particolarmente significativo perché legato alla
profondità delle grandi cose come la vita, l'uomo, il senso di
questo mondo e la realtà di Dio (la parola usata per mostrare ciò
che, immensamente grande e profondo, non è per sempre e totalmente
conoscibile, perché sempre maggiore della nostra capacità, non
lasciandoci però impotenti e disperati nell'ignoranza ma vitali e
costantemente spinti all'apertura di un'esperienza sempre nuova), il
primo termine mi si è sempre legato a ciò che è negato, impedito,
custodito con la gelosia che respinge.
Rileggendo,
perché poco scorrevole, il paragrafo appena concluso, noto che mi
sono lasciato andare. Sono stato troppo netto nella distinzione dando
forse l'impressione di voler distinguere anche tra un valore
'positivo' ed un valore 'negativo'. I significati sono certo molto
più sfumati e nel correggere l'asprezza di quanto scritto penso
anche alle parole delicate del Vangelo che nel parlare di Chi “vede
nel segreto” certo richiama ad una più umile discrezione che
sembra rischiare di perdersi in mezzo a troppo rumorose fanfaronate.
Tornando
così alla dimensione del “segreto” più mite ed intimo, alla
confidenza tra amici, al segreto raccolto di una casa dietro le cui
mura spesso, passeggiando, riusciamo a cogliere solo l'alto dei
soffitti offerti dallo scorcio delle finestre, mi viene in mente il
tema dei giardini segreti: piccole oasi di quiete riparate da alti
muri. Nelle nostre città, precluse all'occhio dei curiosi, spesso si
offrono solo ammiccando con la sommità della vegetazione che
tracima. Cortili, patii, orti veri e propri. Non ne sappiamo quasi
nulla di solito. Non ne abbiamo la chiave. Sappiamo che si nascondono
dai nostri occhi. Spesso sono antiche resistenze alla fame
d'edificazione. A volte gabinetti antiquari di verde e reperti
statuari, a volte miniature di parchi frondosi. Spesso giardini
familiari.
Molto
più recentemente un architetto colto come Francesco Venezia (negli
anni '80) ha saputo indagare nuovamente il tema disegnando dei
minuscoli paesaggi di cui far esperienza a Gibellina, in Sicilia.
Piccoli giardini che oltre ad educare lo sguardo chiamando al
silenzio, come i piccoli chiostri monastici forse riescono a fare,
chiamano a guardare anche sopra l'orizzonte. In alto. Sopra il
ritaglio di terra1.
Lassù dove il segreto sembra svanire. Colto, poeticamente, dagli
angeli umani raccontati da Wenders o, molto più prosaicamente, dallo
sguardo tecnologico onnipresente che tutto registra e moltiplica in
un sovraccumulo di informazioni: l'occhio di Google Earth che mette a
nudo ogni nostra città e borgo. Che, dal cielo, rapisce l'immagine
di ogni fazzoletto di terra.
Ma
se, a terra, tornassimo difesi dentro questi piccoli giardini segreti
e, in pace, pensassimo che in realtà da lì ci potremmo davvero
riappropriare dall'ampiezza del cielo? Se non fossimo noi i guardati
ma, nel segreto, guardassimo? Se trovassimo il giusto silenzio, il
giusto tempo per usare i nostri di occhi e non delegassimo lo sguardo
a migliaia di artifici e schermi, forse potremmo vedere così:
Con
la sera
si
stancarono i due o tre colori del patio.
Questa
notte la luna, il chiaro cerchio, non domina il suo spazio,
Patio,
cielo incanalato.
Il
patio è il declivio
sul
quale straripa il cielo nella casa.
Serena
l'eternità
attende il crocevia delle stelle.
E'
bello vivere con l'amicizia oscura
di
un atrio, di una pergola e di una cisterna.
J.L.
Borges, Un patio (da Fervore di Buenos Aires, 1923)
1L'etimologia
di Tempio/Templum è legata ad un'antica radice indoeropea che vuol
dire “tagliare” affine al greco “témenos”: recinto sacro
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