Introduzione

Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d'isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l'immagine del suo volto.

Jorge Luis Borges, Epilogo da L'artefice, 1960

giovedì 21 luglio 2016

La luce, a volte... e il segreto

Nel leggere la raccolta poetica “La luce, a volte” dell'amico Filippo Davoli ho incontrato spesso tra i versi la parola “segreto”. Mi sono fermato ogni volta a rileggere il verso che la conteneva. Pensavo che presto avrei dovuto chiedere all'autore il senso profondo, per lui, di tale parola. Sì, perché mi piacerebbe sapere quale colore abbia per il poeta, quale memoria porta dentro, quale storia la parola “segreto”.
Non voglio indagarla eccessivamente, non voglio appesantire la libertà di un verso, sezionarlo fino ad ucciderlo. Non posso però non pensare al “segreto” insieme al suo doppio: “mistero”.
E se il secondo termine, liberato dagli usi rimandanti all'occulto, mi è sempre stato particolarmente significativo perché legato alla profondità delle grandi cose come la vita, l'uomo, il senso di questo mondo e la realtà di Dio (la parola usata per mostrare ciò che, immensamente grande e profondo, non è per sempre e totalmente conoscibile, perché sempre maggiore della nostra capacità, non lasciandoci però impotenti e disperati nell'ignoranza ma vitali e costantemente spinti all'apertura di un'esperienza sempre nuova), il primo termine mi si è sempre legato a ciò che è negato, impedito, custodito con la gelosia che respinge.
Rileggendo, perché poco scorrevole, il paragrafo appena concluso, noto che mi sono lasciato andare. Sono stato troppo netto nella distinzione dando forse l'impressione di voler distinguere anche tra un valore 'positivo' ed un valore 'negativo'. I significati sono certo molto più sfumati e nel correggere l'asprezza di quanto scritto penso anche alle parole delicate del Vangelo che nel parlare di Chi “vede nel segreto” certo richiama ad una più umile discrezione che sembra rischiare di perdersi in mezzo a troppo rumorose fanfaronate.

Tornando così alla dimensione del “segreto” più mite ed intimo, alla confidenza tra amici, al segreto raccolto di una casa dietro le cui mura spesso, passeggiando, riusciamo a cogliere solo l'alto dei soffitti offerti dallo scorcio delle finestre, mi viene in mente il tema dei giardini segreti: piccole oasi di quiete riparate da alti muri. Nelle nostre città, precluse all'occhio dei curiosi, spesso si offrono solo ammiccando con la sommità della vegetazione che tracima. Cortili, patii, orti veri e propri. Non ne sappiamo quasi nulla di solito. Non ne abbiamo la chiave. Sappiamo che si nascondono dai nostri occhi. Spesso sono antiche resistenze alla fame d'edificazione. A volte gabinetti antiquari di verde e reperti statuari, a volte miniature di parchi frondosi. Spesso giardini familiari.



Molto più recentemente un architetto colto come Francesco Venezia (negli anni '80) ha saputo indagare nuovamente il tema disegnando dei minuscoli paesaggi di cui far esperienza a Gibellina, in Sicilia. Piccoli giardini che oltre ad educare lo sguardo chiamando al silenzio, come i piccoli chiostri monastici forse riescono a fare, chiamano a guardare anche sopra l'orizzonte. In alto. Sopra il ritaglio di terra1. Lassù dove il segreto sembra svanire. Colto, poeticamente, dagli angeli umani raccontati da Wenders o, molto più prosaicamente, dallo sguardo tecnologico onnipresente che tutto registra e moltiplica in un sovraccumulo di informazioni: l'occhio di Google Earth che mette a nudo ogni nostra città e borgo. Che, dal cielo, rapisce l'immagine di ogni fazzoletto di terra.

Ma se, a terra, tornassimo difesi dentro questi piccoli giardini segreti e, in pace, pensassimo che in realtà da lì ci potremmo davvero riappropriare dall'ampiezza del cielo? Se non fossimo noi i guardati ma, nel segreto, guardassimo? Se trovassimo il giusto silenzio, il giusto tempo per usare i nostri di occhi e non delegassimo lo sguardo a migliaia di artifici e schermi, forse potremmo vedere così:

Con la sera
si stancarono i due o tre colori del patio.
Questa notte la luna, il chiaro cerchio, non domina il suo spazio,
Patio, cielo incanalato.
Il patio è il declivio
sul quale straripa il cielo nella casa.
Serena
l'eternità attende il crocevia delle stelle.
E' bello vivere con l'amicizia oscura
di un atrio, di una pergola e di una cisterna.

J.L. Borges, Un patio (da Fervore di Buenos Aires, 1923)






1L'etimologia di Tempio/Templum è legata ad un'antica radice indoeropea che vuol dire “tagliare” affine al greco “témenos”: recinto sacro

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