Biblioteca
1
Narra,
musa del narratore,
l'antico
bambino gettato ai confini del mondo
e
fa che in lui
ognuno
si riconosca.
Col
tempo quelli che m'ascoltavano
sono
diventati miei lettori
e
non siedono più in circolo
ma
ognuno per sé
e
nessuno sa nulla dell'altro.
Un
vecchio sono io,
di
voce stridula,
ma
il racconto si leva ancora dal profondo
e
la bocca lievemente aperta lo ripete,
con
forza e facilità,
una
liturgia dove nessuno va iniziato
al
senso delle parole e delle frasi.
Il
narratore invoca la musa perché faccia riconoscere ogni uomo nel
bambino gettato nel mondo. Che ispiri in ognuno il ritorno
all'infanzia curiosa e creatrice continua di senso. Un infanzia di
relazioni che si aprono, ben disposte a priori, feconde prima di
perdere la freschezza che porta a far sì che “nessuno sa nulla
dell'altro.”
La
narrazione del vecchio continua nella fatica non del suo farsi ma del
suo accogliersi. Il vecchio appare come voce del mondo, distaccato da
esso però. Preservato dai tumulti si dirà. Come se per guardare,
cogliere e poi dire con sapienza servisse una distanza, la forza per
allontanarsi temporaneamente dalle lotte di ogni giorno, dalle
fatiche, dalle ansie per cogliere non la superficie ma il profondo.
Narrare/scrivere
e vivere sembrano quasi dover allontanarsi perché o l'una o l'altra
condizione sia piena. Torna alla mente la celebre frase di Cesare
Pavese: “Ho imparato a scrivere, non a vivere.”
Biblioteca
2
Il
mondo sembra oscurarsi,
al
crepuscolo,
ma
io lo racconto, come all'inizio,
con
la mia cantilena che mi tiene in vita,
dispensato
dai tumulti dell'ora
e
risparmiato per il futuro.
Basta
con l'espansione del tempo
avanti
e indietro nei secoli.
Posso
pensare solo da un giorno all'altro.
I
miei eroi non sono più guerrieri e re, ma
i
fatti di pace,
uno
vale l'altro.
Le
cipolle messe a seccare buone come
il
tronco d'albero
che
porta attraverso la palude.
Ma
ancora nessuno è riuscito a cantare
un
Epos di pace.
Cosa
c'è nella pace che
alla
lunga non entusiasma e
che
non si presta al racconto?
Devo
darmi per vinto, ora?
Se
mi do per vinto allora
l'umanità
perderà il suo cantore.
E
quando l'umanità
avrà
perso il suo cantore
avrà
perso anche l'infanzia.
Quando
ritroviamo il vecchio narratore la seconda volta troviamo un'amara
constatazione: “Ma ancora nessuno è riuscito a cantare un Epos di
pace.” Questo è il centro della poetica del vecchio. Tentare di
narrare fatti di pace. Una nuova epica con tutta la sua forza, la sua
gloria che non ha però da celebrare vinti, vincitori e sangue.
Un'epica forse statica, silenziosa che fa fatica a smuovere gli
animi. L'unica però che vale la pena costruire e narrare.
Dietro
i lineamenti del vecchio mi immagino in trasparenza quella di
generazioni di gente semplice, umile dedica al lavoro e alla
famiglia, immagino i racconti dei miei nonni, immagino ciò che di
buono ogni giorno è stato fatto senza clamore, immagino parole di
conforto, perdono.
Immagino
le tradizioni delle figure dei saggi o la lontana leggenda, sorta
forse come mito per la condanna, dell'ebreo errante. L'uomo che, non
avendo riconosciuto il Cristo, rifiutandolo come molta parte del suo
popolo, viene condannato a vivere per sempre fino al suo definitivo
ritorno. La condanna a vivere quindi e a vedere le persone amate
abbandonarlo, la condanna a camminare sempre nell'attesa di
riconoscerlo e liberarsi ma anche la possibilità di conoscere, di
vedere, di non essere schiavo della velocità. Un'immagine che, non
badando al giudizio antisemita, fotografa la condizione dell'umanità
in sé. Esule continua, in cammino ma entusiasta più di dominio e
potenza che non d'epica pacifica senza eroi e guerrieri. L'epica del
paradiso perduto che l'umanità ed ogni uomo ha lasciato e lascia
ogni giorno. Il paradiso che non è altrove ma in terra, sotto il
Sole. E quindi ben più antica della maledizione della tradizione
dell'ebreo errante è quella della cacciata dell'uomo da leggere ed
interpretare ogni volta non nella letterarietà ma nel profondo.
Il
racconto della Pace è l'indagine sul reale al di là delle malattie
che lo insidiano. L'indagine che muove Qohelet nella desolazione del
non senso dove tutto è vanità. A riguardo è sempre essenziale
nella sua brevità un piccolo libretto del Cardinale Gianfranco
Ravasi (Qohelet
e le sette malattie dell'esistenza,
Qiqajon).
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