Introduzione

Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d'isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l'immagine del suo volto.

Jorge Luis Borges, Epilogo da L'artefice, 1960

venerdì 22 luglio 2016

Il cielo sopra Berlino o la terra sotto il cielo - Parte 2

Biblioteca 1

Narra, musa del narratore,
l'antico bambino gettato ai confini del mondo
e fa che in lui
ognuno si riconosca.

Col tempo quelli che m'ascoltavano
sono diventati miei lettori
e non siedono più in circolo
ma ognuno per sé
e nessuno sa nulla dell'altro.

Un vecchio sono io,
di voce stridula,
ma il racconto si leva ancora dal profondo
e la bocca lievemente aperta lo ripete,
con forza e facilità,
una liturgia dove nessuno va iniziato
al senso delle parole e delle frasi.

Il narratore invoca la musa perché faccia riconoscere ogni uomo nel bambino gettato nel mondo. Che ispiri in ognuno il ritorno all'infanzia curiosa e creatrice continua di senso. Un infanzia di relazioni che si aprono, ben disposte a priori, feconde prima di perdere la freschezza che porta a far sì che “nessuno sa nulla dell'altro.”
La narrazione del vecchio continua nella fatica non del suo farsi ma del suo accogliersi. Il vecchio appare come voce del mondo, distaccato da esso però. Preservato dai tumulti si dirà. Come se per guardare, cogliere e poi dire con sapienza servisse una distanza, la forza per allontanarsi temporaneamente dalle lotte di ogni giorno, dalle fatiche, dalle ansie per cogliere non la superficie ma il profondo.
Narrare/scrivere e vivere sembrano quasi dover allontanarsi perché o l'una o l'altra condizione sia piena. Torna alla mente la celebre frase di Cesare Pavese: “Ho imparato a scrivere, non a vivere.”


Biblioteca 2

Il mondo sembra oscurarsi,
al crepuscolo,
ma io lo racconto, come all'inizio,
con la mia cantilena che mi tiene in vita,
dispensato dai tumulti dell'ora
e risparmiato per il futuro.

Basta con l'espansione del tempo
avanti e indietro nei secoli.
Posso pensare solo da un giorno all'altro.
I miei eroi non sono più guerrieri e re, ma
i fatti di pace,
uno vale l'altro.
Le cipolle messe a seccare buone come
il tronco d'albero
che porta attraverso la palude.

Ma ancora nessuno è riuscito a cantare
un Epos di pace.
Cosa c'è nella pace che
alla lunga non entusiasma e
che non si presta al racconto?
Devo darmi per vinto, ora?
Se mi do per vinto allora
l'umanità perderà il suo cantore.
E quando l'umanità
avrà perso il suo cantore
avrà perso anche l'infanzia.

Quando ritroviamo il vecchio narratore la seconda volta troviamo un'amara constatazione: “Ma ancora nessuno è riuscito a cantare un Epos di pace.” Questo è il centro della poetica del vecchio. Tentare di narrare fatti di pace. Una nuova epica con tutta la sua forza, la sua gloria che non ha però da celebrare vinti, vincitori e sangue. Un'epica forse statica, silenziosa che fa fatica a smuovere gli animi. L'unica però che vale la pena costruire e narrare.
Dietro i lineamenti del vecchio mi immagino in trasparenza quella di generazioni di gente semplice, umile dedica al lavoro e alla famiglia, immagino i racconti dei miei nonni, immagino ciò che di buono ogni giorno è stato fatto senza clamore, immagino parole di conforto, perdono.
Immagino le tradizioni delle figure dei saggi o la lontana leggenda, sorta forse come mito per la condanna, dell'ebreo errante. L'uomo che, non avendo riconosciuto il Cristo, rifiutandolo come molta parte del suo popolo, viene condannato a vivere per sempre fino al suo definitivo ritorno. La condanna a vivere quindi e a vedere le persone amate abbandonarlo, la condanna a camminare sempre nell'attesa di riconoscerlo e liberarsi ma anche la possibilità di conoscere, di vedere, di non essere schiavo della velocità. Un'immagine che, non badando al giudizio antisemita, fotografa la condizione dell'umanità in sé. Esule continua, in cammino ma entusiasta più di dominio e potenza che non d'epica pacifica senza eroi e guerrieri. L'epica del paradiso perduto che l'umanità ed ogni uomo ha lasciato e lascia ogni giorno. Il paradiso che non è altrove ma in terra, sotto il Sole. E quindi ben più antica della maledizione della tradizione dell'ebreo errante è quella della cacciata dell'uomo da leggere ed interpretare ogni volta non nella letterarietà ma nel profondo.

Il racconto della Pace è l'indagine sul reale al di là delle malattie che lo insidiano. L'indagine che muove Qohelet nella desolazione del non senso dove tutto è vanità. A riguardo è sempre essenziale nella sua brevità un piccolo libretto del Cardinale Gianfranco Ravasi (Qohelet e le sette malattie dell'esistenza, Qiqajon).


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