Introduzione

Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d'isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l'immagine del suo volto.

Jorge Luis Borges, Epilogo da L'artefice, 1960

domenica 23 novembre 2008

Passeggiata lungo Viale Jenner_parte2

Oh, finalmente una bella parrocchia piena la domenica mattina! Sarà per il passaggio dalla penombra dell’ingresso alla luminosità dell’interno che ti dispone ad un nuovo sguardo ma si percepisce la festività in pieno. Prendo posto tra alcune signore per le quali potrei fungere da nipote accompagnatore alla funzione domenicale e prima che la celebrazione abbia inizio mi guardo attorno e rimango colpito dalla complessità dello spazio interno, articolato con gli strumenti propri dell’architettura: la massa compatta, l’equilibrio di sostegni esili, luce, … Mi convinco che, ben oltre quello che avrei potuto trovare nei pressi dell’uscita della metropolitana qualcosa di veramente bello l’ho già trovato. Più tardi con l’occhio clinico passerò in rassegna questo splendido spazio. Passa pochissimo da quando mi trastullo un po’ osservando l’aula che inizia la celebrazione. Entrano in processione accompagnati dal coro che scorgo in fondo, defilato sulla destra, il sacerdote, due diaconi, sei chierichetti ed una torma di bambini, chi con i capelli rossi, chi crespi e scuri, chi con gli occhi a mandorla, ecc. con dei lumini in mano. Le mie compagne di banco intanto “Quanti bambini oggi, eh?” “Ah, l’è un bel sègn”. La liturgia è luminosa, partecipata. I bambini, che stanno per fare la loro prima confessione, leggono alcuni messaggi ai piedi del presbiterio rialzato in cui richiamano alcune loro mancanze e pian piano spengono i lumini, per poi dirigersi nella cappella feriale dove leggeranno insieme le letture e si accosteranno alla confessione. Rientreranno poi all'offertorio, dopo che il sacerdote con delicatezza e benevolenza nella sua omelia riprenderà il tema della conversione e della riconciliazione. Riaccenderanno i lumini, depositandoli ai piedi dell’altare attorno al quale sedendo a terra si stringeranno. E quando, durante la comunione i diaconi distribuiranno il pane consacrato, il celebrante rimarrà all’altare prestando attenzione e dedicandosi ai bambini divisi in due gruppi che, ancora piccoli, non partecipano della mensa eucaristica. Poche celebrazioni mi sono apparse negli ultimi mesi così vive e significative. Tra gli avvisi finali il parroco ricorda anche che nel pomeriggio è possibile partecipare ad una visita guidata della chiesa organizzata dal Politecnico e questo quasi mi sorprende e mi certifica il suo valore, se così si può dire. Da un altro punto di vista mi illumina sulla preziosità della giornata: esco di casa prendendo un vaga direzione; mi lascio guidare dalla voglia di vedere una Milano più dimessa e umile; trovo per caso una splendida chiesa contemporanea, proprio in una settimana in cui da architetto sto riflettendo sul tema dello spazio sacro; vivo una Messa gioiosa e mi ritrovo anche organizzata la visita. Che altro ancora? Finita la celebrazione rimango un po’ al mio banco appuntandomi qualche riga che avrei poi voluto mettere in bella (la prova per vedere se ci son riuscito e sapere se state gradendo questa lettura). In fondo alla chiesa il parroco ed i diaconi salutano i fedeli e alla fine mi accodo anch’io ed esco. Non avendo ancora finito di appuntar tutto mi siedo su un muretto del complesso parrocchiale e continuo con il sole che mitigava il freddo della giornata.
Intanto mi sembra di essere in paese… gruppi di persone che fanno crocchio, ragazzi che corrono, il vecchietto con il cagnolino che passa e si ferma vicino ai bambini, sorvegliati dalle madri, perché possano accarezzare l’animale…

Poi…il vocìo è inequivocabile ma non ci credo… grida sincopate, richiami netti ed un rumore di terra calpestata. Qualche metro più in là, lungo via Catone, tra il muro cieco di una casa e la canonica l’immancabile partita di calcetto.

In campo il Maghreb all-star (e con la supervisione da un tecnico-arbitro!)

L’integrazione ormai è cosa fatta.



P.S. La chiesa è la chiesa di S.Giovanni e Paolo degli arch.Figini e Pollini

Passeggiata lungo Viale Jenner_parte1

Milano. Domenica. Mi sveglio per il freddo. Buio in casa striato dalle luci che filtrano tra le lamelle delle persiane. Lentamente e silenziosamente, per non svegliare chi dorme al di là di una libreria-divisorio, sbrigo le pratiche della levata ed esco per un giro mattutino.
E’ ora di ampliare la conoscenza della città oltre l’itinerario casa-lavoro ed il Duomo. Non ho voglia dei soliti itinerari. Prendo il giornale e scendo in metropolitana e, dopo un tratto con la linea rossa, dal Duomo prendo la gialla e la percorro tutta fino alla fine, fino a Maciachini. Qualche parola sentita alcune settimana fa in ufficio in merito alla presenza di qualche nuovo edificio architettonicamente interessante già mi bastava per decidere la destinazione.
All’uscita della metropolitana non scorgo niente di significativo, muovo qualche passo e forse, in lontananza, mi pare di intuire alcune coperture che potevano essere meritevoli. Nella rapida perlustrazione della piazza a Maciachini leggo però anche il toponimo Viale Edoardo Jenner: il celebre Viale sempre agli onori della cronaca per il centro culturale islamico che lì ha sede e per le, oramai trasferite, preghiere comunitarie del venerdì. Non è casuale che su La Repubblica del giorno stesso, nella sezione milanese, c’è una pagina dedicata al tema. Non mi è sfuggito neanche, mentre arrivavo in metro l’articolo di Ilvio Diamanti “Come si fabbrica l’insicurezza” che cercava di orientare lo sguardo del lettore sul rapporto media-percezione della criminalità e delle problematiche legate alla sicurezza per il quale vi rimando anche al servizio-gioiello di Fede.
Viale Jenner è ampio, alberato, la luce filtra, i bar sono aperti,... perché non percorrerlo?
Il bar era effettivamente una mia piccola preoccupazione. Ancora dovevo far colazione. Entro nell’Alex e Franz e al caffè accompagno una brioche. Nel caso in cui per un momento avessi dimenticato la città in cui stavo passeggiando, al bancone seguo il commento della partita vittoriosa dell’Inter, del posticipo della sera prima con la Juve che vede partecipe con vivo interesse il barista, il quale in realtà da milanista avrebbe preferito un pareggio. Tale è l’interesse che anche per pagare devo farmi notare. D’altra parte come fai a non fermarti a riconsiderare gli errori di finalizzazione di Ibrahimovic che l’è un sacramentùn e l’ha fat un numer
Continuo per Viale Jenner, niente centri culturali islamici in vista ma trovi quello che non aspettavi. Delle signore di mezz’età con Svegliatevi! in mano. Devo accelerare il passo. Proseguo e, nell’attraversare un strada laterale, giro lo sguardo a destra e ad una cinquantina di metri vedo un complesso in laterizio non molto alto ma massiccio. Mi incuriosisce, forse può essere una chiesa, e visto che non volevo rientrare a casa se non dopo aver partecipato alla Messa mi avvicino. Inizio a temere il peggio. E se fosse una “Sala del Regno”? Nel giro di qualche minuto mi troverei sommerso di opuscoli e di Torri di guardia. In maniera meschina e anche poco convinta afferro il telefono e me lo avvicino all’orecchio in modo da avere la scusa pronta per dirmi impegnato. Ci credo poco anch’io e mi vergogno a simulare una vera chiamata. Chissà, magari son credibile lo stesso anche così. Sono uno di quelli che ascolta senza interrompere. Può essere, no? Alla fine si rivela essere una vera chiesa, affascinante nell’involucro esterno cieco in mattoni rossi che descrivono un articolato gioco di volumi. Attraverso un nartece in penombra entro nell’aula liturgica.

sabato 22 novembre 2008

Koolhaas e la crisi dei mercati

Alcuni rapidi appunti per i quali mi permetto la licenza dell'approssimazione:

Ore 15.40 circa, Aula De Carli del Campus Durando del Politecnico di Milano (Bovisa). Rem Koolhaas in occasione della giornata di presentazione del masterplan di OMA per la Bovisa offre all'aula stracolma una piccola lezione.
Ci introduce con una riflessione spesso ascoltata mostrandoci un colonnato greco e raccontandoci di come l'architettura in passato fosse rappresentativa di un sentire comune e condiviso di una civiltà, ... ma poi ci mostra un planisfero con tre sole scritte sopra: Y, €, $. Il mercato è ciò che adesso si rappresenta. E da qui ecco che scorre una panoramica di ciò di cui il mercato decreta il successo e ciò che lo rappresenta: l'originale, lo stravagante, lo spettacolare, il brand, il marchio di fabbrica che ingabbia ormai quelli che il sistema mediatico ha adottato come "grandi", Libeskind, Gehry, Zaha Hadid, ... ed ecco i fotomontaggi che montano "oggettoni" di lusso a formare uno skyline d'eccezione. Ecco le immagini della nuova frontiera dove questi "sogni" atterrano, il Dubai.
A seguire, però, sull'immagine dell'ideale skyline che si delinea sopra le ideali sabbie degli Emirati Arabi appare in sovraimpressione, per usare una terminologia familiare, il grafico dell'andamento dei vari Nasdaq, Nikkei, ... il crollo del mercato! La crisi! E se il mercato crolla? Lo skyline diventa nero.
Si azzera questo tipo di architettura.
Almeno questa è la profezia di Koolhaas che, proprio mentre si prende una prima pausa per bere un bicchiere di acqua, sembra richiamare alla storicità del momento, con distaccato calore, gli intervenuti. Studenti per la maggior parte.
Si azzera e si ricomincia come non succedeva da almeno una decade (o decadi?). Per un architetto alle prime armi o uno studente un bell'incoraggiamento.
C'è qualcosa da dire, ora.

Ora mi lascio andare con minor padronanza e pò con degli slogan poco argomentati ad alcuni pensieri in libertà di qualche giorno fa che a loro volta ne riprendevano altri... ma che sempre ruotavano attorno al mercato immobiliare.
"La casa è un bene." "La casa è un investimento sicuro." "Il mattone è affidabile." Ma è anche un bisogno primario.
... Leggevo un articolo di un giornale che descriveva il mercato milanese parlando di crollo e svalutazione in maniera allarmata. E' così inquietante? Io non credo.
Se è vero che la casa è primariamente un bisogno, un punto essenziale su cui costruire le proprie relazioni, la propria quotidianità ed il proprio esserci possiamo permettere che sia uno strumento eminente per far soldi facili? Per permettere inoperose rendite?
Pensate a quelle immagini un pò alla "Gattopardo" di chi gode di frutti e prestigio di proprietà immense e di terre che di giorno in giorno fruttano pur se disdegnate e poco curate. E pensate alla sempre chiesta riforma agraria che alla rendita anteponeva il bisogno di altri. E pensate ai patrimoni immobiliari, anche piccoli, di chi ha un parco-case che gli permette di riscuotere ad ogni fine del mese con sicuramente poca fatica.
E se il mattone è un buon investimento vuol dire che il valore cresce, cresce, cresce, fino ad una situazione come quella attuale dove si è perso un rapporto credibile con le effettive medie capacità di acquisto. L'affitto è la soluzione? Non proprio. Provate a vedere i canoni mensili? L'affitto, poi, molte volte è pagato da chi deve confrontarsi, per motivi di studio, lavoro, altro con la mobilità... spesso quindi da categorie particolarmente attive e da aiutare, perchè produttive o potenzialmente tali (se l'economia il centro dei nostri pensieri), e comunque vitali per la società anzichè da"spremere" da chi di professione riscuote a fine mese e accumula.
Non voglio sequestrare niente a nessuno ma... Interrompo lasciando a riflessioni più mature eventuali nuovi interventi.
Se qualcuno con salde competenze volesse intervenire ben venga.

lunedì 10 novembre 2008

"Prigioniero di Facebook"

Nel domenicale del Sole 24 Ore c'era un articolo di Andrea Bajani che con ironia raccontava della sua personale esperienza di approccio e convivenza con quella modaiola mania (o forse non così passeggera) di Facebook.
Chiarisco di essere presente anch'io lì con la mia faccia, le mie foto e alcuni miei dati. Non sono quindi un ideologico oppositore di questo sistema di comunicazione per quanto, tutto sommato, poco attento alla cura del mio spazio.

A proposito, l'articolo recitava così:
"Da settimane incontro soltanto persone che mi dicono disperate che vogliono uscire da Facebook ma non riescono a farlo. Lo dicono con gli occhi sbarrati e l'espressione di chi chiede aiuto da dietro le inferriate di una galera. Mi sembrano detenuti che dall'alto urlano a chi passa lì sotto, infilano le braccia oltre le sbarre a rimestare nell'aria. [...]" leggi tutto

domenica 9 novembre 2008

L'eccellente giornalismo

La lettura di poche righe qualche giorno fa tratte da un lungo racconto di viaggio della scrittrice inglese dei primi del '900 Vita Sackville-West mi ha richiamato ad un impegno procrastinato. Mi ero ripromesso, infatti, di commentare un video (vedi sotto) segnalatomi da un amico un pò di tempo fa ed un'associazione di idee fulminea mi ha servito l'incipit: i cani che ti corrono dietro abbaiando.
In un passaggio del libro si legge:

"I contadini alzavano la testa alla vista di uno straniero, poichè i turisti stavano incollati alle tombe e ai templi, e non giravano per i campi. Quando si fermavano a guardare, raddrizzavano la schiena curva e sopra il grano comparivano le loro camicie blu. Nei villaggi, i cani ti correvano incontro abbaiando, e orde di bambini spuntavano da chissà dove, con le faccette sorridenti, le mani tese e i piedi nudi che strisciavano nella polvere."

Siamo in Egitto, presso Luxor, e con queste parole si racconta della libertà di muoversi e della curiosità. Poco prima è scritto:

"Mi piaceva discostarmi dalla strada per entrare nella regione della vita della campagna."

Ho trovato, da lettore, un'affinità immediata con la Sackville-West dato che passerei delle intere vacanze a peregrinare discostandomi dalla strada per perdermi in quella stessa regione. Davvero e volentieri, ma con la paura che dei cani liberi squarcino questo idillio. Confesso che la serenità di un pacificante cammino rurale la associo al timore di cani che mi considerino un pericoloso estraneo.
Ma pur ammettendo che possano esserci avrebbe senso che io diffondessi in maniera allarmata e irrazionale lo spauracchio, legato solo a mie fissazioni forse, di belve feroci che son sempre pronte ad azzannare?

E se poi lo facesse, a suo modo, un giornalista televisivo dedicando tempo ed energia a spaventare il pubblico e a sdegnarlo con lo spettro del degrado e della violenza?
Guardatevi il video che accompagna questo post e se, come me, conoscete abbastanza bene Venezia godetevi il saggio di giornalismo dannoso ed insano di Emilio Fede.
Descrivervi la quiete di poter ascoltare i propri passi nel camminare la notte a Venezia quando la città è vuota, la serenità naturale di questa isola e l'assoluta pace che vi regna fino alle prime ore del giorno forse è troppo impegnativo per tentare adesso.
Con quali occhi invece il giornalista guarda a questa realtà? Con quelli dello stereotipo e del sensazionalismo del losco.

Emilio, non vorrai mica alimentare, per usare uno slogan di successo, un senso di insicurezza? O giocare con i timori di chi guarda al mondo con gli occhi della televisione?
Oltre a non fare buona informazione sappi che non aiuti me e quelli che come me hanno il "problema" dei cani sciolti per la campagna. Se è vero che assomigliano ai loro padroni e che vivano, per osmosi, dei loro umori ed i loro padroni si sentono in continuo pericolo, in guardia e ansiosi...
... vuoi che prima o poi non ci mordano per un bisogno di sicurezza a casa loro?

sabato 1 novembre 2008

I libri che non ho scritto

Curiosando in libreria uno di questi giorni potresti trovarti tra le mani dei libri che non esistono o meglio un libro che ne contiene alcuni. E’ “I libri che non ho scritto” di George Steiner. Lo scrittore e saggista francese racconta sette libri che per motivi diversi non scrisse mai. Ora, così come Umberto Eco, ironicamente rancoroso, nella presentazione milanese del libro, alla presenza dell'autore, lo ha accusato di essere un suo plagiario con dieci anni d’anticipo anch’io, molto più umilmente, mi sento defraudato dell’originalità di un libro che vive e cresce tra la mia testa e quadernetti sparsi.

Un passo indietro. Quando la curiosità viene stimolata il proposito di "saperne di più" affiora comunemente in molti di noi. Quando si ha la statura intellettuale, i mezzi quindi, ed il necessario interesse per il tema si indaga per riuscire poi a comunicare con una pubblicazione gli esiti degli studi. Ma chi vieta anche a noi che non avremmo la capacità sufficiente o la costanza che, evaporata la gioia dell’inizio e subentrata la fatica del durante, potrebbe farci arrivare alla soddisfazione di degne conclusioni di cimentarci con i buoni propositi ideali.

Quanti sono i temi che ci hanno incuriosito? O quelli che, per misteriosa affinità, periodicamente ci richiamano e riaffiorano? E poi, quante volte si è cullata la segreta aspirazione di essere il più addentro a qualcosa, di essere un’autorità in materia, di essere la pietra di paragone?
Possa essere anche solo la storia del condominio dai primi anni '20 in poi, ma è una soddisfazione!
Cosa è universalmente riconosciuto come segno di legittimazione in questo senso se non un bel nome scritto su una copertina di un libro?
Chi lo hai scritto, riconoscerai, lo ha fatto perché nel gioco della cultura quella è una pedina in più che altri dovranno considerare, perché ha creduto anch'egli di giocare legittimamente, perché vuol custodire il suo territorio e quello è la sua cittadella, perché altri leggano, ecc.

Ma tornando a noi, a noi che per ora possiamo solo evocare tale eventualità, perché non iniziare con l’esercizio più divertente? Quali sono i libri che vorresti scrivere?

Vorresti e non “avresti voluto” perché sei ancora in tempo.