Dopo lunghi tentennamenti faccio il primo passo nella lettura in digitale. Il grande pro muoveva da una considerazione economica. Il grande contro era il tradimento dell'oggetto libro tangibile ed afferrabile.
Ad inaugurare la lettura in e-book è stato "Specie di spazi " di George Perec che, con parole che sento di aver pensato identiche, nel mo così saluta:
"Scrivere: cercare meticolosamente di trattenere qualcosa, di far sopravvivere qualcosa: strappare qualche briciola precisa al vuoto che si scava, lasciare, da qualche parte, un solco, una traccia, un marchio o qualche segno."
Introduzione
Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d'isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l'immagine del suo volto.
Jorge Luis Borges, Epilogo da L'artefice, 1960
Jorge Luis Borges, Epilogo da L'artefice, 1960
lunedì 12 settembre 2016
domenica 24 luglio 2016
Il cielo sopra Berlino o la terra sotto il cielo - Parte 3
All'esterno
Non
riesco a trovare la Potsdamerplatz.
No,
credo sia qui.
No,
no. Non può essere.
Perchè
alla Potsdamerplatz c'era il Cafè Josty.
Ci
venivo il pomeriggio a chiacchierare e a bere un caffè.
Guardavo
la gente, dopo aver fumato i miei sigari da “Lohse & Wolff”.
Una
tabaccheria prestigiosa proprio qui di fronte.
Allora,
non può esser qui la Potsdamerplatz, no.
Non
si incontra nessuno a cui poter chiedere.
Era
una piazza animata.
Tram,
omnibus a cavalli e due auto: la mia e quella della cioccolata
Hamman.
Anche
i magazzini Wertheim erano qui.
E
poi, all'improvviso, là
sventolarono
delle bandiere.
L'intera
piazza ne era piena.
E
la gente non era più gentile
e
neanche la polizia.
Ma
non mi do per vinto
finché
non ho trovato la Potsdamerplatz.
Dove
sono i miei eroi?
Dove
siete voi, figli miei?
Dove
stanno i miei?
Gli
ottusi, quelli delle origini?
Chiamami,
o musa, il povero immortale cantore
che,
abbandonato dai mortali suoi uditori,
perse
la voce lui che,
angelo
del racconto,
è
diventato il suonatore d'organetto là fuori,
ignorato
e deriso,
alle
soglie della terra di nessuno.
Narrare
e vivere non possono mai essere del tutto cose distinte pena falsità
e pochezza. La stessa falsità e pochezza di certe omelie ed
esternazioni di pio sentimento. Il vecchio cerca la piazza dove
guardava la gente, dove fumava e beveva il caffè. Dove si
coinvolgeva secondo la sua indole e sensibilità prima che la gente
non smise di perdere la gentilezza con la cui fine fece sparire anche
la piazza, e gli uomini, e la ragione d'essere del cantore senza
uditori.
E
senza ascolto non si riesce neanche più a capire, a vedere.
Altra
scena
Solo
le strade romane portano ancora lontano,
sono
le tracce più antiche, portano più lontano.
Qui,
dov'è il colle?
Anche
la pianura, anche Berlino
ha
i suoi colli nascosti,
e
là soltanto inizia il mio paese,
il
paese dei racconti.
Perché
tutti, già da bambini,
non
vedono passaggi, punti e interstizi
giù
sulla terra e su nel cielo?
Se ognuno li vedesse
Se ognuno li vedesse
ci
sarebbe una storia senza assassini né guerre.
Finale
Nominami
gli uomini e le donne e i bambini
che
cercheranno me, il loro narratore,
cantore
e corifeo perché essi
hanno
bisogno di me
più
di ogni altra cosa al mondo.
Siamo
tutti sulla stessa barca.
L'ascolto
di un senso che illumini la noia, la desolazione, l'alienazione torna
essenziale. Senso che non è fine, immediato scopo, giustificazione
economica e funzionale, utilità tecnica1.
Senso e vita sono sulla stessa barca.
Appendice
La
parte non letta nel film dell'Elogio dell'infanzia di Handke
Quando
il bambino era bambino,
non riusciva ad inghiottire gli spinaci, i piselli, il riso al latte,
il cavolfiore bollito,
ed ora mangia tutto, e non solo per necessità.
non riusciva ad inghiottire gli spinaci, i piselli, il riso al latte,
il cavolfiore bollito,
ed ora mangia tutto, e non solo per necessità.
Quando
il bambino era bambino,
si risvegliò una volta in un letto estraneo,
ed ora gli accade sempre,
gli apparivano belli molti uomini,
e adesso soltanto in rari casi,
si rappresentava nitidamente un paradiso,
e adesso lo può al massimo intuire,
non riusciva ad immaginare il nulla,
ed oggi rabbrividisce al suo pensiero.
si risvegliò una volta in un letto estraneo,
ed ora gli accade sempre,
gli apparivano belli molti uomini,
e adesso soltanto in rari casi,
si rappresentava nitidamente un paradiso,
e adesso lo può al massimo intuire,
non riusciva ad immaginare il nulla,
ed oggi rabbrividisce al suo pensiero.
Quando
il bambino era bambino
giocava con entusiasmo
e adesso è così preso dalla cosa come allora
solo se questa cosa è il suo lavoro.
giocava con entusiasmo
e adesso è così preso dalla cosa come allora
solo se questa cosa è il suo lavoro.
Quando
il bambino era bambino,
per nutrirsi gli bastavano pane e mela,
ed è ancora così.
per nutrirsi gli bastavano pane e mela,
ed è ancora così.
Quando
il bambino era bambino,
le bacche gli cadevano in mano,
come solo le bacche sanno cadere.
Ed è ancora così.
Le noci fresche gli raspavano la lingua,
ed è ancora così.
Ad ogni monte, sentiva nostalgia di una montagna ancora più alta,
e in ogni città sentiva nostalgia di una città ancora più grande.
E questo, è ancora così.
Sulla cima di un albero,
prendeva le ciliegie tutto euforico,
com’è ancora oggi.
Aveva timore davanti ad ogni estraneo,
e continua ad averne.
Aspettava la prima neve,
e continua ad aspettarla.
le bacche gli cadevano in mano,
come solo le bacche sanno cadere.
Ed è ancora così.
Le noci fresche gli raspavano la lingua,
ed è ancora così.
Ad ogni monte, sentiva nostalgia di una montagna ancora più alta,
e in ogni città sentiva nostalgia di una città ancora più grande.
E questo, è ancora così.
Sulla cima di un albero,
prendeva le ciliegie tutto euforico,
com’è ancora oggi.
Aveva timore davanti ad ogni estraneo,
e continua ad averne.
Aspettava la prima neve,
e continua ad aspettarla.
Quando
il bambino era bambino,
lanciava contro l’albero un bastone, come fosse una lancia.
E ancora continua a vibrare.»
lanciava contro l’albero un bastone, come fosse una lancia.
E ancora continua a vibrare.»
Peter
Handke
1Vedere
a riguardo il capitolo “Scopo e senso” in Romano Guardini,
L'opera d'arte, Morcelliana, Brescia, 1998
venerdì 22 luglio 2016
Il cielo sopra Berlino o la terra sotto il cielo - Parte 2
Biblioteca
1
Narra,
musa del narratore,
l'antico
bambino gettato ai confini del mondo
e
fa che in lui
ognuno
si riconosca.
Col
tempo quelli che m'ascoltavano
sono
diventati miei lettori
e
non siedono più in circolo
ma
ognuno per sé
e
nessuno sa nulla dell'altro.
Un
vecchio sono io,
di
voce stridula,
ma
il racconto si leva ancora dal profondo
e
la bocca lievemente aperta lo ripete,
con
forza e facilità,
una
liturgia dove nessuno va iniziato
al
senso delle parole e delle frasi.
Il
narratore invoca la musa perché faccia riconoscere ogni uomo nel
bambino gettato nel mondo. Che ispiri in ognuno il ritorno
all'infanzia curiosa e creatrice continua di senso. Un infanzia di
relazioni che si aprono, ben disposte a priori, feconde prima di
perdere la freschezza che porta a far sì che “nessuno sa nulla
dell'altro.”
La
narrazione del vecchio continua nella fatica non del suo farsi ma del
suo accogliersi. Il vecchio appare come voce del mondo, distaccato da
esso però. Preservato dai tumulti si dirà. Come se per guardare,
cogliere e poi dire con sapienza servisse una distanza, la forza per
allontanarsi temporaneamente dalle lotte di ogni giorno, dalle
fatiche, dalle ansie per cogliere non la superficie ma il profondo.
Narrare/scrivere
e vivere sembrano quasi dover allontanarsi perché o l'una o l'altra
condizione sia piena. Torna alla mente la celebre frase di Cesare
Pavese: “Ho imparato a scrivere, non a vivere.”
Biblioteca
2
Il
mondo sembra oscurarsi,
al
crepuscolo,
ma
io lo racconto, come all'inizio,
con
la mia cantilena che mi tiene in vita,
dispensato
dai tumulti dell'ora
e
risparmiato per il futuro.
Basta
con l'espansione del tempo
avanti
e indietro nei secoli.
Posso
pensare solo da un giorno all'altro.
I
miei eroi non sono più guerrieri e re, ma
i
fatti di pace,
uno
vale l'altro.
Le
cipolle messe a seccare buone come
il
tronco d'albero
che
porta attraverso la palude.
Ma
ancora nessuno è riuscito a cantare
un
Epos di pace.
Cosa
c'è nella pace che
alla
lunga non entusiasma e
che
non si presta al racconto?
Devo
darmi per vinto, ora?
Se
mi do per vinto allora
l'umanità
perderà il suo cantore.
E
quando l'umanità
avrà
perso il suo cantore
avrà
perso anche l'infanzia.
Quando
ritroviamo il vecchio narratore la seconda volta troviamo un'amara
constatazione: “Ma ancora nessuno è riuscito a cantare un Epos di
pace.” Questo è il centro della poetica del vecchio. Tentare di
narrare fatti di pace. Una nuova epica con tutta la sua forza, la sua
gloria che non ha però da celebrare vinti, vincitori e sangue.
Un'epica forse statica, silenziosa che fa fatica a smuovere gli
animi. L'unica però che vale la pena costruire e narrare.
Dietro
i lineamenti del vecchio mi immagino in trasparenza quella di
generazioni di gente semplice, umile dedica al lavoro e alla
famiglia, immagino i racconti dei miei nonni, immagino ciò che di
buono ogni giorno è stato fatto senza clamore, immagino parole di
conforto, perdono.
Immagino
le tradizioni delle figure dei saggi o la lontana leggenda, sorta
forse come mito per la condanna, dell'ebreo errante. L'uomo che, non
avendo riconosciuto il Cristo, rifiutandolo come molta parte del suo
popolo, viene condannato a vivere per sempre fino al suo definitivo
ritorno. La condanna a vivere quindi e a vedere le persone amate
abbandonarlo, la condanna a camminare sempre nell'attesa di
riconoscerlo e liberarsi ma anche la possibilità di conoscere, di
vedere, di non essere schiavo della velocità. Un'immagine che, non
badando al giudizio antisemita, fotografa la condizione dell'umanità
in sé. Esule continua, in cammino ma entusiasta più di dominio e
potenza che non d'epica pacifica senza eroi e guerrieri. L'epica del
paradiso perduto che l'umanità ed ogni uomo ha lasciato e lascia
ogni giorno. Il paradiso che non è altrove ma in terra, sotto il
Sole. E quindi ben più antica della maledizione della tradizione
dell'ebreo errante è quella della cacciata dell'uomo da leggere ed
interpretare ogni volta non nella letterarietà ma nel profondo.
Il
racconto della Pace è l'indagine sul reale al di là delle malattie
che lo insidiano. L'indagine che muove Qohelet nella desolazione del
non senso dove tutto è vanità. A riguardo è sempre essenziale
nella sua brevità un piccolo libretto del Cardinale Gianfranco
Ravasi (Qohelet
e le sette malattie dell'esistenza,
Qiqajon).
giovedì 21 luglio 2016
Il cielo sopra Berlino o la terra sotto il cielo - Parte 1
Pubblico nel blog alcune rapide riflessione scritte rapidamente ma tenute in sedimentazione da lunghissimo tempo. Possano far la loro strada e magari tornare per altre vie...
Un
po' di anni fa, non ricordo se avevo già finito il Liceo, ritagliai
dalle pagine di Repubblica delle fotografie naturalistiche per nulla
banali. Ne ricordo una in particolare: quella della coda di un grosso
rettile sopra una pozza d'acqua. Nell'articolo si parlava di un
fotografo brasiliano, Joao Salgado, che si era dedicato ad un
progetto fotografico dal titolo “Genesi”. Le immagini tratte da
questo lavoro, dal titolo chiaramente fondativo di un'opera che anela
ad un pubblico universale e di ogni tempo, erano foto in bianco e
nero, di grande forza. Sembravano arrivare da un tempo più antico
della storia. Evocavano scene che anticipavano la comparsa dell'uomo
e che lo rimetteva entro i suoi limiti di ospite ultimo e giovane di
una terra ben più antica.
Rimasi
molto colpito dalla carica di suggestioni di quel lavoro. Tenetti ben
a mente il nome di Salgado scoprendo poi gli altri suoi lavori
fotografici. Recentemente l'ho riavvicinato per altra via. Non più
attraverso le sue mute ed eloquenti foto ma grazie ad un
film-documentario che Wim Wenders gli ha dedicato volendo illustrare
la sua opera e la sua vicenda umana e artistica insieme. Un film
lento. Lento come ogni cosa che vuol insegnare il tempo per
l'ascolto, il silenzio, lo sguardo nelle cose. Ed un film a tratti
faticoso e duro da digerire per la partecipazione alle immagini di
maggior crudezza che Salgado ha raccolto nei suoi lavori di indagine
della realtà degli ultimi del mondo. Nei progetti fotografici in cui
si è trovato a narrare di migrazioni, fame, sofferenza e violenza.
Sì perché le fotografie senza parole raccontano e lasciano nel
tempo fermo dello scatto lo spazio per popolare quell'istante
infinito di riflessione, ascolto, domande.
Wenders
ha certo familiarità con il racconto per immagini. E come regista,
mi concedo un'osservazione senza pretendere perizia e conoscenza, ama
avvicinare la fotografia con lunghe scene ad inquadratura fissa e
quasi senza azione apparente.
“Il
cielo sopra Berlino” è un film che mi ha colpito con la stessa
intensità con la quale mi colpirono le foto di Salgado. Carico di
suggestioni e anche solo per il fatto di rimanere idealmente non
concluso, senza tener conto delle decine di voci diverse che per
frammenti lo popolano lasciando istantanee sulle loro vite, ha una
grande apertura che la sensibilità dello spettatore può “abitare”.
Mi
piacerebbe scriverne. Non ne voglio fare un commento. Non lo voglio
recensire. Non lo voglio analizzare. Vorrò parlarne per quello che è
riuscito ad ispirarmi. Ne scriverò senza rivederlo perché più che
la fedeltà e la correttezza ritengo importante ciò che conservo.
Ciò che io ho accolto e rielaborato magari traviando o fraintendendo
o mescolando ad altre cose che nel frattempo gli si sono andate a
sovrapporre. L'unica cosa concreta e ferma sulla quale mi voglio
poggiare sono le parole del film, che un tempo mi ero appuntato, ed
il testo della poesia “Elogio dell'infanzia” (Lied vom Kindsein)
di Peter Handke, che collaborò al film con Wenders, recitata
all'apertura e successivamente. Le parole che mi ero appuntato sono
invece quelle recitate da un anziano personaggio, un narratore. Il
personaggio del vecchio narratore mi è particolarmente caro.
In
apparenza sono parole distanti: parole dell'infanzia e parole della
fatica del tempo.
Così
si apre il film:
«Quando
il bambino era bambino,
se ne andava a braccia appese.
Voleva che il ruscello fosse un fiume,
il fiume un torrente,
e questa pozza il mare.
se ne andava a braccia appese.
Voleva che il ruscello fosse un fiume,
il fiume un torrente,
e questa pozza il mare.
Quando
il bambino era bambino,
non sapeva d’essere un bambino.
Per lui tutto aveva un’anima,
e tutte le anime erano tutt’uno.
non sapeva d’essere un bambino.
Per lui tutto aveva un’anima,
e tutte le anime erano tutt’uno.
Quando
il bambino era bambino,
su niente aveva un’opinione.
Non aveva abitudini.
Sedeva spesso a gambe incrociate,
e di colpo sgusciava via.
Aveva un vortice tra i capelli,
e non faceva facce da fotografo.
su niente aveva un’opinione.
Non aveva abitudini.
Sedeva spesso a gambe incrociate,
e di colpo sgusciava via.
Aveva un vortice tra i capelli,
e non faceva facce da fotografo.
[interruzione]
Quando
il bambino era bambino,
era l’epoca di queste domande:
Perché io sono io, e perché non sei tu?
Perché sono qui, e perché non sono lì?
Quando è cominciato il tempo, e dove finisce lo spazio?
La vita sotto il sole, è forse solo un sogno?
Non è solo l’apparenza di un mondo davanti al mondo,
quello che vedo, sento e odoro?
C’è veramente il male?
E gente veramente cattiva?
Come può essere che io, che sono io,
non c’ero prima di diventare?
E che una volta io, che sono io,
non sarò più quello che sono?
era l’epoca di queste domande:
Perché io sono io, e perché non sei tu?
Perché sono qui, e perché non sono lì?
Quando è cominciato il tempo, e dove finisce lo spazio?
La vita sotto il sole, è forse solo un sogno?
Non è solo l’apparenza di un mondo davanti al mondo,
quello che vedo, sento e odoro?
C’è veramente il male?
E gente veramente cattiva?
Come può essere che io, che sono io,
non c’ero prima di diventare?
E che una volta io, che sono io,
non sarò più quello che sono?
Le
parole della poesia evocano l'età che sembra essere perduta, ormai
lontana. “Quando il bambino era bambino” e ormai non più.
Mettono insieme con semplicità la leggerezza dell'infanzia, la
libertà e al tempo stesso la fantasia e lo sguardo vitale sulle
cose, ancora incantato. E nell'ingenuità incrociano grandi temi che
forse crescendo si tengono lontani perché stanchi del fatto di non
trovare mai la risposta ultima.
Sembra
quasi essere speculare al brano della prima lettera ai Corinzi di San
Paolo (1Cor 13,11-12)
“Quando
ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da
bambino; ma quando sono diventato uomo, ho smesso le cose da bambino.
Poiché ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora
vedremo faccia a faccia; ora conosco in parte; ma allora conoscerò
pienamente, come anche sono stato perfettamente conosciuto.”
“Quando
sono diventato uomo, ho smesso le cose da bambino” dice San Paolo.
Sembra dire, nel contesto dell'intero brano, che come la condizione
dell'infanzia viene superata così quella dell'imperfezione della
nostra conoscenza sarà superata quando vedremo Dio. Ma non è forse
un ritorno a quell'infanzia, e non il suo abbandono, che nel Vangelo
ci viene indicato come via per il Regno dei Cieli? (Mt 18,3)
Nei
versi che aprono il film appare forte l'infanzia delle domande, della
capacità di incuriosirsi, di partecipare, del dubbio che non è
angoscioso. Versi che suonerebbero strani agli angeli del film,
guardiani e custodi degli uomini, perfetti ma distaccati, incapaci di
sentire e provare le esperienze umane.
Alle
parole dell'Elogio dell'infanzia seguono più avanti nel film quelle
che si possono ascoltare nella testa e nel pensiero di un vecchio
personaggio. Un anziano, Omero, che si riconosce come narratore. Non
del film ma narratore in sé. Lo si incontra all'interno della grande
Biblioteca di Stato di Berlino, quella dell'architetto Hans Scharoun.
Sono parole che richiamano l'antica epica e subito riappare,
introdotta dall'invocazione alla musa, il bambino.
La luce, a volte... e il segreto
Nel
leggere la raccolta poetica “La
luce, a volte”
dell'amico Filippo Davoli ho incontrato spesso tra i versi la parola
“segreto”. Mi sono fermato ogni volta a rileggere il verso che la
conteneva. Pensavo che presto avrei dovuto chiedere all'autore il
senso profondo, per lui, di tale parola. Sì, perché mi piacerebbe
sapere quale colore abbia per il poeta, quale memoria porta dentro,
quale storia la parola “segreto”.
Non
voglio indagarla eccessivamente, non voglio appesantire la libertà
di un verso, sezionarlo fino ad ucciderlo. Non posso però non
pensare al “segreto” insieme al suo doppio: “mistero”.
E
se il secondo termine, liberato dagli usi rimandanti all'occulto, mi
è sempre stato particolarmente significativo perché legato alla
profondità delle grandi cose come la vita, l'uomo, il senso di
questo mondo e la realtà di Dio (la parola usata per mostrare ciò
che, immensamente grande e profondo, non è per sempre e totalmente
conoscibile, perché sempre maggiore della nostra capacità, non
lasciandoci però impotenti e disperati nell'ignoranza ma vitali e
costantemente spinti all'apertura di un'esperienza sempre nuova), il
primo termine mi si è sempre legato a ciò che è negato, impedito,
custodito con la gelosia che respinge.
Rileggendo,
perché poco scorrevole, il paragrafo appena concluso, noto che mi
sono lasciato andare. Sono stato troppo netto nella distinzione dando
forse l'impressione di voler distinguere anche tra un valore
'positivo' ed un valore 'negativo'. I significati sono certo molto
più sfumati e nel correggere l'asprezza di quanto scritto penso
anche alle parole delicate del Vangelo che nel parlare di Chi “vede
nel segreto” certo richiama ad una più umile discrezione che
sembra rischiare di perdersi in mezzo a troppo rumorose fanfaronate.
Tornando
così alla dimensione del “segreto” più mite ed intimo, alla
confidenza tra amici, al segreto raccolto di una casa dietro le cui
mura spesso, passeggiando, riusciamo a cogliere solo l'alto dei
soffitti offerti dallo scorcio delle finestre, mi viene in mente il
tema dei giardini segreti: piccole oasi di quiete riparate da alti
muri. Nelle nostre città, precluse all'occhio dei curiosi, spesso si
offrono solo ammiccando con la sommità della vegetazione che
tracima. Cortili, patii, orti veri e propri. Non ne sappiamo quasi
nulla di solito. Non ne abbiamo la chiave. Sappiamo che si nascondono
dai nostri occhi. Spesso sono antiche resistenze alla fame
d'edificazione. A volte gabinetti antiquari di verde e reperti
statuari, a volte miniature di parchi frondosi. Spesso giardini
familiari.
Molto
più recentemente un architetto colto come Francesco Venezia (negli
anni '80) ha saputo indagare nuovamente il tema disegnando dei
minuscoli paesaggi di cui far esperienza a Gibellina, in Sicilia.
Piccoli giardini che oltre ad educare lo sguardo chiamando al
silenzio, come i piccoli chiostri monastici forse riescono a fare,
chiamano a guardare anche sopra l'orizzonte. In alto. Sopra il
ritaglio di terra1.
Lassù dove il segreto sembra svanire. Colto, poeticamente, dagli
angeli umani raccontati da Wenders o, molto più prosaicamente, dallo
sguardo tecnologico onnipresente che tutto registra e moltiplica in
un sovraccumulo di informazioni: l'occhio di Google Earth che mette a
nudo ogni nostra città e borgo. Che, dal cielo, rapisce l'immagine
di ogni fazzoletto di terra.
Ma
se, a terra, tornassimo difesi dentro questi piccoli giardini segreti
e, in pace, pensassimo che in realtà da lì ci potremmo davvero
riappropriare dall'ampiezza del cielo? Se non fossimo noi i guardati
ma, nel segreto, guardassimo? Se trovassimo il giusto silenzio, il
giusto tempo per usare i nostri di occhi e non delegassimo lo sguardo
a migliaia di artifici e schermi, forse potremmo vedere così:
Con
la sera
si
stancarono i due o tre colori del patio.
Questa
notte la luna, il chiaro cerchio, non domina il suo spazio,
Patio,
cielo incanalato.
Il
patio è il declivio
sul
quale straripa il cielo nella casa.
Serena
l'eternità
attende il crocevia delle stelle.
E'
bello vivere con l'amicizia oscura
di
un atrio, di una pergola e di una cisterna.
J.L.
Borges, Un patio (da Fervore di Buenos Aires, 1923)
1L'etimologia
di Tempio/Templum è legata ad un'antica radice indoeropea che vuol
dire “tagliare” affine al greco “témenos”: recinto sacro
Etichette:
Filippo Davoli,
Leggere,
poesia,
Scrittura,
silenzio
mercoledì 20 luglio 2016
Pensieri sparsi sulle follie di questi tempi
La nostalgia per i bei tempi andati è forse vecchia quanto l'umanità. Anche riprendendo in mano la letteratura latina troveremmo critica alla vita degenerata, alle nuove generazioni corrotte e svilite nei valori. Quindi non credo utile pensare che l'oggi sia il tempo della decadenza sempre e comunque.
Detto questo, però, ritengo che la rapidità delle evoluzioni che anche solo in un secolo o mezzo ci hanno investito ci stiano lasciando spaesati. La sempre maggior rapidità, l'ampliarsi dello spettro delle possibilità tecniche forse non hanno avuto gli stessi tempi della lenta maturazione di cui ogni persona e ogni generazione hanno bisogno per avere quel sano distacco critico che permetta loro di tenerli nel campo dello strumentale. Basti pensare alla capacità tecnologica delle comunicazioni.
Papa Francesco con realismo nell'enciclica "Laudato si'" nel capitolo intitolato "Deterioramento della qualità della vita umana e degradazione sociale"scrive:
"A questo si aggiungono le dinamiche dei media e del mondo digitale, che, quando diventano onnipresenti, non favoriscono lo sviluppo di una capacità di vivere con sapienza, di pensare in profondità, di amare con generosità. I grandi sapienti del passato, in questo contesto, correrebbero il rischio di vedere soffocata la loro sapienza in mezzo al rumore dispersivo dell'informazione."
A questo fa seguire poi una riflessione sulla necessità di maturazione umana e non di svilimento dato dalla privazione del vero incontro, ascolto, condivisione mascherato da una realtà incarnata da schermi. A prescindere dall'essere o meno credenti, tale aspetto della realtà merita attenzione.
Il tema della maturazione, della piena cura (coltivazione quasi) di sè personalmente e come comunità forse è il tema centrale di questo tempo di crisi.
La forza dell'attualità ce lo dice con violenza. Perché il successo mediatico, entusiasta e folle dell'internazionale del terrore targata oggi ISIS e dei suoi improvvisati adepti, ad esempio?
I fattori sono certo mille, misti e complessi ma un aspetto interessante non può non essere la perdita di senso in tanta parte della popolazione fragile, esclusa e debole legata ad una crisi profonda del nostro sistema sociale.
Su cosa si è retta negli ultimi decenni la vita dell'Occidente e di conseguenza del resto del mondo pian piano colonizzato in diversa maniera rispetto al passato? La promessa di benessere, di ricchezza, di accesso ai beni, di nuovi beni, di desideri da soddisfare e poi da inventare e soddisfare. Il meccanismo difficile da invertire del consumismo e della pubblicità. "Pietra angolare del consumismo, la pubblicità ci fa desiderare quello che non abbiamo e disprezzare quello che abbiamo. La pubblicità crea e ricrea l'insoddisfazione e la tensione del desiderio frustrato." (S.Latouche, Limite)
La crisi economica è stata più dura e devastante di quanto molti hanno percepito perché tutto era ed è diventato economia consumistica. Ha occupato ogni spazio perché si è alimentata di consumatori, di mercato e non è stata a servizio di uomini e comunità. Quando l'orizzonte è diventato avere, ottenere, raggiungere livelli sempre più alti di status e reddito, avere la tecnologia più accattivante, spendere fortune per telefoni cellulari dimenticando il resto è stato molto naturale che perdendo la prospettiva dorata di poter davvero raggiungere, rincorrendoli, questi bisogni imposti allora il nostro mondo si sia sfasciato. Nel momento in cui non faccio più parte del mondo del consumo, del benessere patinato allora a cosa mi appiglio? Cosa mi da sapienza e senso?
Ma un senso tutti lo dobbiamo avere. E forse la violenza, la prospettiva di una realizzazione grande e memorabile è un'offerta di senso allettante. Perché seconde generazioni di immigrati artificiosamente ricreano in pochissime settimane una loro identità legata ad un islamismo combattente antiquato e modernissimo al tempo stesso? Perché persone socialmente in difficoltà, sole, escluse, fragili prendono la via della violenza? Forse è il richiamo di un senso che vogliono dare alla loro vita in "periferia esistenziale".
Allora sì, è naturale che una grande bandiera che sa comunicare, che sa davvero far pubblicità, che sputa su questo Occidente che le fa schifo possa attirare a sé tantissimi sbandati.
E poi, sì, questa nuovo brand ISIS funziona davvero in Occidente. Non serve molto tempo, non serve una lenta maturazione. E' rapido, indipendente, liberissimo e in un attimo accende su di sé i riflettori.
Un atto di follia quando il rancore, l'insoddisfazione e la violenza premono diventa evento, spettacolo, fama!
Detto questo, però, ritengo che la rapidità delle evoluzioni che anche solo in un secolo o mezzo ci hanno investito ci stiano lasciando spaesati. La sempre maggior rapidità, l'ampliarsi dello spettro delle possibilità tecniche forse non hanno avuto gli stessi tempi della lenta maturazione di cui ogni persona e ogni generazione hanno bisogno per avere quel sano distacco critico che permetta loro di tenerli nel campo dello strumentale. Basti pensare alla capacità tecnologica delle comunicazioni.
Papa Francesco con realismo nell'enciclica "Laudato si'" nel capitolo intitolato "Deterioramento della qualità della vita umana e degradazione sociale"scrive:
"A questo si aggiungono le dinamiche dei media e del mondo digitale, che, quando diventano onnipresenti, non favoriscono lo sviluppo di una capacità di vivere con sapienza, di pensare in profondità, di amare con generosità. I grandi sapienti del passato, in questo contesto, correrebbero il rischio di vedere soffocata la loro sapienza in mezzo al rumore dispersivo dell'informazione."
A questo fa seguire poi una riflessione sulla necessità di maturazione umana e non di svilimento dato dalla privazione del vero incontro, ascolto, condivisione mascherato da una realtà incarnata da schermi. A prescindere dall'essere o meno credenti, tale aspetto della realtà merita attenzione.
Il tema della maturazione, della piena cura (coltivazione quasi) di sè personalmente e come comunità forse è il tema centrale di questo tempo di crisi.
La forza dell'attualità ce lo dice con violenza. Perché il successo mediatico, entusiasta e folle dell'internazionale del terrore targata oggi ISIS e dei suoi improvvisati adepti, ad esempio?
I fattori sono certo mille, misti e complessi ma un aspetto interessante non può non essere la perdita di senso in tanta parte della popolazione fragile, esclusa e debole legata ad una crisi profonda del nostro sistema sociale.
Su cosa si è retta negli ultimi decenni la vita dell'Occidente e di conseguenza del resto del mondo pian piano colonizzato in diversa maniera rispetto al passato? La promessa di benessere, di ricchezza, di accesso ai beni, di nuovi beni, di desideri da soddisfare e poi da inventare e soddisfare. Il meccanismo difficile da invertire del consumismo e della pubblicità. "Pietra angolare del consumismo, la pubblicità ci fa desiderare quello che non abbiamo e disprezzare quello che abbiamo. La pubblicità crea e ricrea l'insoddisfazione e la tensione del desiderio frustrato." (S.Latouche, Limite)
La crisi economica è stata più dura e devastante di quanto molti hanno percepito perché tutto era ed è diventato economia consumistica. Ha occupato ogni spazio perché si è alimentata di consumatori, di mercato e non è stata a servizio di uomini e comunità. Quando l'orizzonte è diventato avere, ottenere, raggiungere livelli sempre più alti di status e reddito, avere la tecnologia più accattivante, spendere fortune per telefoni cellulari dimenticando il resto è stato molto naturale che perdendo la prospettiva dorata di poter davvero raggiungere, rincorrendoli, questi bisogni imposti allora il nostro mondo si sia sfasciato. Nel momento in cui non faccio più parte del mondo del consumo, del benessere patinato allora a cosa mi appiglio? Cosa mi da sapienza e senso?
Ma un senso tutti lo dobbiamo avere. E forse la violenza, la prospettiva di una realizzazione grande e memorabile è un'offerta di senso allettante. Perché seconde generazioni di immigrati artificiosamente ricreano in pochissime settimane una loro identità legata ad un islamismo combattente antiquato e modernissimo al tempo stesso? Perché persone socialmente in difficoltà, sole, escluse, fragili prendono la via della violenza? Forse è il richiamo di un senso che vogliono dare alla loro vita in "periferia esistenziale".
Allora sì, è naturale che una grande bandiera che sa comunicare, che sa davvero far pubblicità, che sputa su questo Occidente che le fa schifo possa attirare a sé tantissimi sbandati.
E poi, sì, questa nuovo brand ISIS funziona davvero in Occidente. Non serve molto tempo, non serve una lenta maturazione. E' rapido, indipendente, liberissimo e in un attimo accende su di sé i riflettori.
Un atto di follia quando il rancore, l'insoddisfazione e la violenza premono diventa evento, spettacolo, fama!
Etichette:
Crisi,
politica-società,
terrore,
violenza
Iscriviti a:
Post (Atom)